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Infarto miocardico acuto - STEMI (Capitolo 2.6.6)


Nei capitoli precedenti, dopo aver brevemente analizzato i fondamenti anatomici e fisiopatologici che portano ad una riduzione del flusso a livello cardiaco, ci siamo soffermati dapprima sulle forme di angina cronica stabile (si veda il capitolo 2.6.2) per poi analizzare il grande capitolo delle sindromi coronariche acute dove abbiamo principalmente parlato di angina instabile (capitolo 2.6.3), NSTEMI (capitolo 2.6.4) con una pausa trattando dei test provocativi d’ischemia (Capitolo 2.6.5) per terminare con questo capitolo dedicato allo STEMI (ST-Elevation Myocardial Infarction). Parleremo pertanto di tutte quelle forme di necrosi miocardica acuta associata ad elevazioni del tratto ST all’ECG, che rappresentano delle condizioni estremamente frequenti e su cui il consensus della presa a carico del paziente é relativamente omogenea fra tutti i gruppi di pazienti appartenenti a questa categoria.


Nel mondo la coronaropatia é la causa più frequente di morte (12.8% di tutte le morti nel mondo); in Svezia, dove é presente un importante registro per lo STEMI, si sono registrati un numero di ricoveri in ospedale di 66 STEMI ogni 100.000 abitanti, anche se si pensa che la reale incidenza sia decisamente maggiore (compresi i pazienti asintomatici ed i pazienti con morte improvvisa). La mortalità da STEMI é estremamente variabile e dipende dall’età del paziente, dalla classe Killip, dal ritardo di terapia, dalla tipologia di terapia (invasiva vs farmacologica), dalla presenza di co-patologie (diabete mellito, insufficienza renale cronica) dal numero di vasi interessati, dalla EF residua, ecc… con una mortalità intra-ospedaliera che varia fra il 6-14% (che si attesa attorno al 12% a 6 mesi).


CLINICA:
Il corretto management dello STEMI é la chiave per poter migliorare la sopravvivenza del paziente ed inizia da quando il personale medico/paramedico entra in contatto la prima volta con il paziente. Generalmente tramite la clinica e l’ECG é già possibile eseguire una diagnosi (pertanto non bisogna assolutamente attendere la presenza di tutti i risultati per la presa a carico del paziente, la troponina non ha alcuna rilevanza nella fase acuta, sarà utile per seguire l’entità del danno miocardico, stimare l’entità della necrosi e seguire indirettamente i segni di una riperfusione adeguata).

ANAMNESI:
Le peculiarità del dolore da infarto rispetto al dolore anginoso sono (generalmente) una insorgenza a riposo (il meccanismo lo abbiamo già visto nel capitolo precedente), un dolore di intensità elevata, una durata prolungata (almeno 20-30 minuti, il tempo necessario per sviluppare necrosi) e nessuna/scarsa risposta alla terapia con nitrati. In oltre la metà dei casi i sintomi compaiono in pieno benessere, mentre altre volte invece si hanno sintomi di malessere aspecifico, spesso tipici di ischemie miocardiche che possono portare anche ad un pre-condizionamento ischemico, favorendo la formazione di circoli collaterali. Come abbiamo già visto, a volte sono presenti anche altri sintomi concomitanti, quali nausea e vomito (in circa il 50% dei pazienti, soprattutto negli infarti inferiori per attivazione di riflesso vagale), astenia, iperidrosi algida, palpitazioni accompagnate da senso di morte imminente, ecc… Dal punto di vista clinico vanno tenuti a mentre tre casi peculiari: 1) gli infarti inferiori che presentano spesso sintomi gastro-enterici atipici, legati ad un’iperattività vagale, 2) gli infarti nell’anziano che può manifestare segni di scompenso cardiaco acuto con astenia improvvisa e/o un evento cerebrale come primo sintomo ed infine 3) gli infarti nel paziente diabetico che spesso tende ad essere clinicamente silente.

ESAME OBIETTIVO:
L’esame obiettivo in caso di sospetto infarto miocardico non serve per porre diagnosi, quando per valutare la severità del quadro clinico che si ha di fronte. L’auscultazione cardiaca può mostrare toni aggiunti (tipici di forme di scompenso) e/o nuovi soffi (per la presenza di insufficienza mitralica o rotture del setto); l’auscultazione polmonare può mostrare rantoli e sibili compatibili con un quadro di stasi venosa polmonare; il polso arterioso può essere aritmico (con rischio di sviluppare TV-FV), tachicardico (a rischio di scompenso cardiaco e/o per un quadro di shock cardiogeno) o bradicardico (con un maggiore rischio di asistolia); la cute può essere fredda e sudata (in caso di pre-shock/shock cardiogeno), ed i parametri vitali possono mostrare una progressiva ipotensione arteriosa, una tachicardia riflessa ed una desaturazione. Anche in questo caso (come per lo NSTEMI) la presenza di scompenso cardiaco acuto identifica una popolazione con una mortalità attorno al 15-20%, mentre uno stato di shock cardiogeno porta ad un incremento della mortalità fino al 50%.


ELETTROCARDIOGRAMMA:
L’Elettrocardiogramma (ECG) svolge un ruolo fondamentale nella diagnosi (e nella diagnostica differenziale), nella stratificazione del rischio della severità di malattia e nello stabilire la sede presunta dell’occlusione coronarica. La diagnosi tempestiva di STEMI è la chiave per una gestione di successo; il monitoraggio elettrocardiografico dovrebbe essere iniziato il più presto possibile in tutti i pazienti con sospetto STEMI per rilevare aritmie vitali e permettere una tempestiva defibrillazione se indicato. Inoltre, un ECG a 12 derivazioni dovrebbe essere ottenuto e interpretato appena possibile; anche in una fase iniziale, l'ECG è raramente normale in caso di STEMI. In genere il sopraslivellamento del tratto ST misurato al punto J, deve essere trovato elevato in due derivazioni contigue ed essere superiore a 0.25 mV negli uomini di età inferiore ai 40 anni, oppure superiore a 0.2 mV negli uomini di età superiore ai 40 anni, oppure superiore a 0.15 mV nelle donne nelle derivazioni V2-V3 oppure superiore a 0.1 mV in altri casi (in assenza di ipertrofia ventricolare sinistra o blocco di branca sinistro). Nei pazienti con infarto miocardico inferiore, si consiglia di registrare subito le derivazioni precordiali destre (V3R e V4R) in cerca di sopraslivellamento ST, al fine di individuare un concomitante infarto del ventricolo destro. Allo stesso modo, la depressione del tratto ST nelle derivazioni V1-V3 può suggerire un’ischemia miocardica posteriore e può essere confermato mediante il riscontro di una elevazione del tratto ST superiore a 0.1 mV registrato nelle derivazioni V7-V9.




In merito all’infarto del ventricolo destro, bisogna sempre ricordarsi che il ventricolo destro é in grado di resistere più a a lungo del ventricolo sinistro all’ischemia, per la presenza di un post-carico minimo, un ridotto spessore di parete ed una perfusione coronarica persistente anche in sistole. In caso di disfunzione ventricolare destra, la condizione clinica va gestita come in caso di sovraccarico ventricolare destro, anche se in questo caso non si ha un aumento della PAPs, ma una riduzione della contrattilità inotropa del ventricolo destro. Bisognerà pertanto garantire una adeguata perfusione coronarica (noradrenalina), aumentare la contrattilità ventricolare destra (dobutamina), mantenere sotto controllo il post-carico (evitare pressioni positive elevate, ipossia, ipercapnia, acidosi, ipotermia, ecc…) e mantenere un adeguato precarico con un riempimento di fluidi continuo, evitando la somministrazione di vasodilatatori venosi.

PARAMETRI CLINICI:
La severità di un quadro di infarto miocardico acuto dall’ECG si stabilisce in base a: A) entità del sovraslivellamento, b) numero delle derivazioni coinvolte, C) coesistenza del sottoslivellamento ST (il quadro tipico di una occlusione prossimale si caratterizza da un sopraslivellamento ST con alcune aree contenenti un sottoslivellamento). La conoscenza della sede di infarto è utile per: a) prevedere alcune complicanze peculiari di alcune sedi (come la comparsa di blocchi AV nell’infarto inferiore), b) valutare la severità (l’infarto anteriore generalmente è più severo di quello inferiore) e c) individuare il vaso da trattare.

  • Infarto anteriore: generalmente coinvolge le derivazioni V1-V4 ed appare più esteso rispetto all’infarto inferiore, tendendo più facilmente a generare quadri di scompenso cardiaco ed evolvere verso rimodellamenti ventricolari più severi.
  • Infarto inferiore: tipicamente coinvolge le derivazioni D2-D3-aVF e può accompagnarsi a sintomi di attivazione vagale (come bradicardia, nausea, vomito, sudorazione, ecc…) e ad aritmie ipocinetiche (con blocchi sinusali o AV) che possono richiede l’uso di un pacemaker esterno. Nell’infarto inferiore vanno SEMPRE registrate le derivazioni destre, in quando non è raro un concomitante coinvolgimento del ventricolo destro (che come abbiamo accennato prima richiede un trattamento farmacologico differente).
  • Infarto posteriore: si caratterizza per la comparsa di un sottoslivellamento del tratto ST in V1-V2 (che rappresentano lo speculare di un sovraslivellamento in aree in cui non ci sono elettrodi per poter vedere un sovraslivellamento); generalmente richiedono l’esecuzione di un ECG con le derivate V7-V9.
  • Infarto laterale: si caratterizza per un coinvolgimento delle derivazioni D1-aVL-V5-V6;
  • Infarto destro: raramente occorre da solo e generalmente avviene nel contesto di un infarto inferiore associato (per la presenza di un’area del ramo interventricolare posteriore a possibile provenienza destra) il cui deficit funzionale può portare ad una distensione delle camere destra (con aumento della PVC) ed eventualmente apertura di shunt destro-sinistro comportanti ipossia refrattaria all’ossigenazione.

CASI COMPLESSI:
In presenza di un blocco di branca sinistro, la diagnosi di infarto miocardico acuto è difficile, ma spesso risulta possibile solo se sono presenti anomalie del tratto ST; alcuni algoritmi piuttosto complessi sono stati offerti a sostegno della diagnosi, anche se non forniscono una completa certezza diagnostica. Un ECG precedente può essere utile nel determinare se il blocco di branca sinistro è di nuova insorgenza, aumentando pertanto le probabilità che sia in corso un infarto miocardico acuto. È importante sottolineare che, in pazienti con sospetto clinico di ischemia miocardica in corso (anche con la comparsa di un nuovo blocco di branca sinistro), la terapia di riperfusione dovrebbe essere considerata subito, preferibilmente utilizzando l’angiografia coronarica in emergenza per eseguire una coronaroplastica percutanea o, se non disponibile, una lisi endovenosa. Un’elevazione della troponina 1-2 ore dopo l'insorgenza dei sintomi nei pazienti con blocco di branca sinistro di origine incerta può aiutare a decidere se eseguire un’angiografia d'emergenza per una successiva angioplastica percutanea. 

La presenza di una stimolazione ventricolare (pacing) può rendere difficile l’interpretazione delle variazioni del tratto ST e può richiedere un’angiografia urgente per confermare la diagnosi ed iniziare precocemente la terapia; la riprogrammazione del pacemaker sotto stretto controllo cardiologico può permettere di valutare la presenza di alterazioni ECG durante l’attività cardiaca intrinseca, senza ritardare l’esecuzione di indagini invasive.

Raramente in caso di STEMI i pazienti arrivano lamentando la sintomatologia anginosa ma senza ECG diagnostico; alcuni pazienti possono avere un ECG iniziale senza sopraslivellamento del tratto ST, a volte perché sono visti molto precocemente dopo l'insorgenza dei sintomi (in questo caso, si dovrebbe cercare la presenza di onde T iper-acute, che possono precedere il sopraslivellamento del tratto ST). E' importante ripetere l'ECG o monitorare il tratto ST al monitor per il rischio che alcuni pazienti con occlusione acuta reale ed infarto miocardico in corso possano presentare dopo qualche minuto un sopraslivellamento del tratto ST e si vedano negata la terapia di riperfusione, con la comparsa conseguente di un infarto esteso e risultati clinici peggiori. 

In caso compaia un infarto posteriore isolato, cioè un infarto miocardico acuto della porzione infero-basale del cuore, spesso corrispondente al territorio dell’Arteria circonflessa sinistra, si può avere una depressione ST superiore a 0.05 mV nelle derivazioni V1 fino a V3, che dovrebbe essere trattato come un STEMI. L'utilizzo di ulteriori misurazioni della parete posteriore del torace è consigliato per rilevare un eventuale sopraslivellamento del tratto ST coerente con l’infarto infero-basale. Bisogna quindi pensare sempre ad un possibile infarto posteriore, estendendo in casi dubbi il classico ECG a 12 derivazioni con cavi V7-V9

Per tutti questi casi dubbi, il prelievo di sangue per i marcatori sierici viene normalmente effettuato in fase acuta, ma per i pazienti ad alto rischio non si devono aspettare i risultati per iniziare il trattamento di riperfusione; la Troponina (T o I) è il biomarcatore di scelta, data la sua elevata sensibilità e specificità per la necrosi miocardica. Nei pazienti che invece presentano un rischio basso o intermedio di ischemia miocardica in corso ed una lunga durata dei sintomi al momento della valutazione medica (che riduce la possibilità di uno STEMI precoce), una controllo della troponina può aiutare per evitare inutili angiografie d'emergenza.

ARRESTO CARDIACO:
Molti decessi si verificano precocemente durante le prime ore dopo uno STEMI, a causa di una fibrillazione ventricolare (FV); dal momento che questa aritmia si verifica più frequentemente nella fase iniziale, queste morti tipicamente avvengono fuori dall'ospedale. Pertanto è fondamentale che tutto il personale medico e paramedico che si occupano di un sospetto infarto miocardico abbiamo accesso ai defibrillatori e siano addestrati al massaggio cardiaco ed al monitoraggio ECG. Nei pazienti con arresto cardiaco in fase ROSC, il cui ECG mostra un chiaro sopraslivellamento del tratto ST, la strategia di scelta é l’angiografia immediata per una angioplastica percutanea. Data l'elevata prevalenza di occlusioni coronariche e potenziali difficoltà di interpretazione del ECG in pazienti dopo l'arresto cardiaco, angiografia immediata dovrebbe essere eseguita in tutti gli ospedali che forniscono assistenza ai pazienti con STEMI ed venire considerata nei pazienti sopravvissuti all’arresto cardiaco che presentano un elevato indice di sospetto di infarto in corso (come la presenza di dolore al petto prima dell'arresto, una anamnesi stabilita di coronaropatia e/o risultati anomali dell’ECG). 

Oggigiorno poi, non vi è evidenza che i sopravvissuti all’arresto cardiaco extraospedaliero che rimangono in coma abbiano un miglioramento neurologico se vengono trattati con ipotermia; pertanto questi pazienti devono ricevere rapidamente una coronarografia diagnostica. L'attuazione di protocolli locali o regionali per gestire in modo ottimale l’arresto cardiaco extra-ospedaliero è fondamentale per fornire tempestiva una rianimazione cardiopolmonare, una defibrillazione precoce (se necessaria) ed un efficace supporto farmacologico avanzato. La disponibilità di defibrillatori automatici esterni è un fattore chiave per aumentare la sopravvivenza; la prevenzione ed una migliore gestione dell’arresto cardiaco extraospedaliero sono la chiave per ridurre la mortalità legate alla coronaropatia. 


LABORATORIO:
Gli enzimi cardiaci sono enzimi contenuti all’interno della cellula miocardica, la cui rilevazione in circolo è espressione di necrosi cellulare (infarto del miocardio); gli enzimi utilizzati in tale condizione sono tre: la Mioglobina, la Troponina I e la CK-MB. Dei dettagli su questi enzimi ne abbiamo già ampiamente parlato nei capitoli precedenti (si vedano il Capitolo 2.6.4 ed il Capitolo 2.6.5). Come abbiamo visto, in caso di STEMI generalmente la clinica e l’ECG permettono di porre una diagnosi immediata, ma spesso per situazioni difficili è necessario utilizzare gli enzimi per la conferma diagnostica o la diagnostica differenziale; è fondamentale conoscerne la cinetica, la sensibilità e la specificità enzimatica. Se la clinica e l’ECG sono tipici, si inizia il trattamento SENZA attendere il risultato degli enzimi.



FASE PRE-OSPEDALIERA:
La maggior parte delle morti avviene nelle prime ore post-infarto miocardico per la comparsa di una FV; appare quindi evidente l’importanza di chiamare immediatamente i soccorsi (144) al fine di provvedere il più velocemente possibile all’arrivo in sede di un’unità di soccorso per la RCP (rianimazione cardio-polmonare) avanzata con defibrillatore. In caso di arresto cardiaco si segue il protocollo ACLS (di cui tratteremo nell’apposito capitolo dedicato all’arresto cardiaco, si veda il Capitolo 2.11).

La prevenzione dei ritardi può essere un fattore critico negli STEMI per due ragioni: in primo luogo, il momento più critico di un infarto miocardico acuto è la primissima fase, durante il quale il paziente presenta spesso un intenso dolore ed é ad alto rischio di arresto cardiaco; un defibrillatore deve essere reso disponibile al paziente con sospetto di infarto miocardico acuto appena possibile, per una defibrillazione immediata se necessario. Inoltre, la fornitura precoce della terapia, in particolare la terapia di riperfusione, è fondamentale per il recupero clinico. Pertanto la riduzione al minimo dei ritardi si associa a un miglioramento dei risultati clinici; inoltre, la misurazione dei ritardi al trattamento rappresenta uno dei fattori che andrebbero regolarmente misurati come indice della qualità delle cure in caso di STEMI, con indicatori prestabiliti che devono essere soddisfatti e mantenuti nel tempo. 
  • Ritardo del paziente: rappresenta il ritardo tra l'insorgenza dei sintomi e la chiamata al 144; per ridurre al minimo il ritardo del paziente, il pubblico dovrebbe essere a conoscenza di come riconoscere i sintomi più comuni di infarto del miocardio e sul chiamare i servizi di emergenza; un’analisi dell'efficacia di campagne pubbliche in tal senso non è stato ancora chiaramente stabilito. I pazienti con una storia di coronaropatia e le loro famiglie dovrebbero ricevere informazioni  sul riconoscimento dei sintomi a causa di infarto miocardico acuto e le misure concrete da prendere, qualora si verifichi un sospetta sindrome coronarica acuta. Può essere saggio di fornire ai pazienti coronaropatia stabilita una copia del loro ECG di base ai fini del confronto da parte del personale medico.
  • Ritardo tra i soccorsi e la diagnosi: un buon indice della qualità della cura è il tempo impiegato per registrare il primo ECG; negli ospedali e nei sistemi medici di emergenza che partecipano alla cura dei pazienti con STEMI, l'obiettivo dovrebbe essere quello di ridurre questo ritardo a 10 minuti o meno.
  • Ritardo tra i soccorsi e la terapia di riperfusione: questo viene definito come ritardo di sistema ed é più facilmente modificabile tramite misure organizzative adeguate. Si tratta di un indicatore della qualità delle cure e un fattore predittivo di outcomes. Se la terapia di riperfusione è l’angioplastica percutanea primaria, l'obiettivo dovrebbe essere un ritardo inferiore a 90 min (e nei pazienti ad alto rischio per infarti anteriori dovrebbe essere inferiore a 60 min). Se la terapia di riperfusione è la fibrinolisi, l'obiettivo è quello di ridurre questo ritardo a 30 min. Dal punto di vista del paziente, il ritardo tra insorgenza dei sintomi e la terapia di riperfusione (sia la fibrinolisi che l’angioplastica) è forse il fattore più importante, in quanto riflette il tempo totale di ischemia e dovrebbe essere ridotto il più possibile.


LOGISTICA:
Nella situazione ottimale, il paziente chiama un numero centrale di soccorso (144) per chiedere aiuto non appena possibile dopo la comparsa del dolore toracico; il centro di soccorso invia un'ambulanza completamente attrezzata con personale addestrato ad eseguire ed interpretare un ECG a 12 derivazioni. Una volta che l'ECG rivela un sopraslivellamento del tratto ST od un nuovo (o presunto tale) blocco di branca sinistro, l'ospedale più vicino attrezzato per l’angioplastica percutanea viene informato della situazione per l’arrivo paziente. Durante il trasferimento in ambulanza, l’ECG viene tele-inviato all’ospedale di referenza per la conferma diagnostica; sempre l’ospedale di referenza prepara il laboratorio di cateterismo, permettendo il trasferimento diretto del paziente sul tavolo del laboratorio di cateterizzazione (bypassando il pronto soccorso). Per la struttura e l’organizzazione pratica presente sul territorio svizzero questo sistema viene generalmente ben rispettato, ed anche gli appositi centri possono confermare gli adeguati tempi di riperfusione.



RIPERFUSIONE:
Per i pazienti con la presentazione tipica di STEMI entro 12 ore dall’esordio dei sintomi e con persistente sopraslivellamento del tratto ST o nuovo o presunto nuovo blocco di branca sinistra, una terapia meccanica (angioplastica percutanea) o una riperfusione farmacologica dovrebbe essere effettuata il più presto possibile. Si parla di PCI (angioplastica percutanea) come terapia che generalmente viene indicata come terapia di prima linea per la gestione dello STEMI, dato che appare essere una terapia relativamente facile da eseguire (se fatta da mani esperte), rapida ed in grado di portare ad una diagnosi/terapia in maniera estremamente rapida (nel giro di pochi minuti); generalmente gli ospedali dotati di PCI sono anche in grado di garantire una copertura costante per la cardiologia interventistica. Se si esegue un’adeguata riperfusione in centri ad alto volume di pazienti, generalmente si ha una buona sopravvivenza con danni miocardici minimi, così come per quello che concerne le complicanze, soprattutto se paragonate alla fibrinolisi; studi randomizzati controllati hanno dimostrato che una PCI primaria (quindi non di salvataggio per i pazienti che non rispondono alla fibrinolisi) rispetto alla terapia fibrinolitica, in centri ad alto volume, si dimostra superiore in termini di adeguata riperfusione, severità dell’infarto (definito dall’area sotto alla curva della troponina) e sopravvivenza a 28 giorni. Qualora il paziente non venga trattato mediante una delle terapia di ripercussione classiche (PCI, trombolisi, CABG) e si provveda alla gestione con una semplice terapia medica, la sopravvivenza in questi casi appare decisamente ridotta (e generalmente appare una strategia riservata a pazienti con condizioni cliniche decisamente sfavorevoli per le copatologie presenti).

PCI PRIMARIA:
Circa il 50% dei pazienti con STEMI presentano una malattia multivasale significativa; solo l'arteria infartuata correlata con l’infarto dovrebbe essere trattata durante l'intervento iniziale, dato che non ci sono prove attuali per sostenere interventi di emergenza in aree non infartuali anche se presentano delle stenosi. Le uniche eccezioni sono in caso di malattia multivasale durante uno STEMI in pazienti con shock cardiogeno, in presenza di più stenosi critiche (oltre il 90% del diametro) o per presenza di lesioni stabili ma con possibili trombi o di interruzione della lesione, ed infine se c'è ischemia persistente dopo PCI della presunta lesione colpevole. 

Esiste un solo studio randomizzato dove é stata eseguita una tromboaspirazione durante l’intervento coronarico percutaneo durante STEMI (studio TAPAS) su 83 pazienti, mostrando un miglioramento degli indici di riperfusione cardiaca (con normalizzazione del tratto ST) ed un aumento della sopravvivenza ad 1 anno. I pazienti sottoposti a PCI primaria devono ricevere una terapia doppiamente antiaggregante (vedi oltre) assieme ad anticoagulanti sia per trattare precocemente il trombo che per poter evitare la formazione di coaguli sugli stent che richiederanno una terapia antiaggregante per un determinato periodo di tempo dopo la loro posa, periodo di tempo che é determinato dalla tipologia di stent (é noto che gli stent medicati, cioè dotati di farmaci in grado di ridurre la proliferazione endoteliale per evitare la formazione di stenosi peri-stent, sono associati ad un alto tasso di trombosi). L’aspirina viene solitamente somministrata PO (150-300 mg) in modo da bloccare completamente l’attività di aggregazione piastrinica tramite il recettore TXA2. Ci sono pochi studi clinici sul dosaggio minimo corretto, ma attualmente si ritiene che anche una dose di 80-150 mg possa essere sufficiente. I bloccanti preferiti del recettore ADP delle piastrine sono il Prasugrel o il Ticagrelor; questi farmaci hanno una più rapida insorgenza d'azione ed una maggiore potenza e si sono dimostrati superiori al clopidogrel in diversi trials. Nessuno degli agenti più potenti (prasugrel o ticagrelor) deve essere usato in pazienti con un precedente ictus emorragico o in pazienti con malattia epatica moderata-grave. Quando nessuno di questi agenti è disponibile (o sono controindicati), il Clopidogrel 600 mg PO dovrebbe essere somministrato;il farmaco non è stato valutato contro placebo su larga nel contesto della PCI primaria, ma un più alto regime di 600 mg dose di carico dose di mantenimento e 150 mg nella prima settimana si é dimostrato superiore al regime di 300/75 mg nel sottoinsieme di pazienti sottoposti a PCI nella strategia ottimale per antiaggregante. Le opzioni anticoagulanti per la PCI primaria sono l’eparina non frazionata, l’eparina a basso peso molecolare (soprattutto l’enoxaparina) e la bivalirudina; per l’eparina non frazionata non ci sono studi randomizzati caso-controllo, ma ci sono ampie esperienze con questo farmaco e generalmente si somministra a dosi di 18-20 U/Kg/24 ore dopo un bolus di 5.000 UI IV. Non ci sono evidenze sull’utilità di controllare l’aPTT per il monitoraggio dell’anticoagulazione nel contesto di una fase acuta e generalmente non viene indicato un suo controllo.Si rimanda alla tabella allegata ed alle linee guida della ESC (European Society of Cardiology) per la gestione della terapia post-PCI.




TROMBOLISI:
La trombolisi rappresenta il trattamento farmacologico che viene utilizzato in tutte le strutture che non sono dotate di un laboratorio di emodinamica e in cui non è possibile eseguire il trasporto del paziente verso tale laboratorio in tempi brevi. Generalmente si somministra un trombolitico IV (come l’Alteplase 15 mg IV in bolo, poi 50 mg/30 min IV, poi 35 mg/60 min IV), associato a Liquemina per 24-48 ore (per evitare la formazione e/o l’estensione di nuovi trombi) ed ASA 100 mg die PO. L’efficacia totale è del 50-60% (vs oltre il 90% dell’angioplastica primaria), presenta un tasso di efficacia che é tempo-dipendente, agisce solo sulla componente trombotica (e non sulla placca ateromasica) e presenta dei rischi emorragici maggiori nei pazienti oltre i 75 anni, sottopeso, le donne, gli ipertesi, pazienti con pregressi TIA/stroke e pazienti anticoagulati. Sono da valutare i rischi/benefici della terapia con trombolisi, in particolare: a) é da considerare se il paziente può essere trattato per tempo in un centro dotato di angioplastica percutanea (in questo caso é preferibile rimandare la trombolisi), b) nel caso il paziente non possa raggiungere il centro di angioplastica, é da controllare se sono presenti delle controindicazioni relative/assolute (si veda la tabella) per l’uso della trombolisi, c) se si procede con la trombolisi, si deve iniziare la terapia più precocemente possibile, d) nel caso che il paziente non risposta alla terapia trombolitica, si deve organizzare il trasporto del paziente in un centro dotato di angioplastica coronarica per l’esecuzione di una PCI secondaria.




CABG:
Anche se molto più raramente rispetto a prima, l’uso del by-pass aorto-coronarico per la gestione degli STEMI rimane ancora una scelta nel caso in cui si riscontri un’anatomia difficilmente trattabile mediante angioplastica percutanea ed il vaso colpito risulti comunque ancora aperto, mentre nel caso di anatomia non adeguata e shock cardiogeno, il CABG é raramente indicato ed i suoi vantaggi sono incerti.


TERAPIA FARMACOLOGICA:
Accanto alla fase diagnostica acuta ed al trattamento in urgenza mediante angioplastica percutanea o trombolisi, si deve impostare una terapia farmacologica che agisca a livello prognostico e sintomatico. L’ASA 100 mg die PO è un farmaco che si è dimostrato svolgere un effetto sinergico con altri antiaggreganti nella riduzione della mortalità acuta/cronica; viene anche utilizzato nel ridurre il rischio di una trombosi acuta dello stent; ad oggi appare indicata una dose minima di 75-100 mg die PO da proseguire in maniera indefinita a vita. Le indicazioni per una sospensione del farmaco sono in caso di gravissimi sanguinamenti (emorragie cerebrali, shock emorragici, ecc…) oppure in caso di inefficacia clinica qualora si preferisca la terapia mono-antiaggregante con un altro farmaco. Fra gli inibitori del recettore ADP delle piastrine si stanno concentrando diversi studi (abbiamo già accennato al Clopidogrel, al Prasugrel, al Ticagrelor, ecc…) e ad oggi rappresentano una terapia di proseguimento da continuare per circa 12 mesi dopo la posa di uno stent medicato. In particolare per i primi 6 mesi appare indicata una doppia antiaggregazione in maniera assoluta, per cui tutti gli interventi chirurgici o invasivi non urgenti devono essere rimandati, mentre fra i 6-12 mesi si deve discutere con il cardiologo sulla reale urgenza di un intervento per poter momentaneamente sospendere la terapia farmacologica. L’Alteplase 0,125 µg/Kg/min per 12 ore rappresenta l’esempio tipico di come gli inibitori della GpIIb/IIIa si sono dimostrati efficaci nel ridurre il rischio di complicanze peri-procedurali, aumentando le chance di riperfusione. Vengono continuati per 12 ore post-procedura per ridurre il rischio di trombosi dello stent.

I ß-bloccanti sono farmaco che si sono dimostrati utili ed efficaci nel ridurre la mortalità sia a breve che a lungo termine per la riduzione del lavoro miocardico, riducendo l’area della necrosi cardiaca ed il rischio di aritmie maligne; sono farmaci prognostici che devono essere impostati precocemente se é possibile (sia IV che PO). Non ritorniamo sulle controindicazioni ed i limiti di questi farmaci. Appare utile segnalare che uno degli effetti benefici é la bradicardia che permette di aumentare il tempo di riperfusione miocardica e ridurre il lavoro cardiaco: nel caso che risultino controindicati i beta-bloccanti, si é dimostrato utile introdurre una terapia con Ibravadina (Procoralan) proprio allo scopo di rallentare la frequenza cardiaca. Gli ACE-inibitori si sono dimostrati efficaci nel ridurre la mortalità, e vanno impostati entro 24 ore dall’evento (generalmente in maniera progressiva, ma portando la dose finale alla massima dose tollerata); l’effetto benefico maggiore appare nei pazienti che presentano un infarto anteriore con una EF inferiore al 40% e scompenso cardiaco. Le statine sono un altro gruppo di farmaci che va impostato precocemente ed i cui effetti si pensa siano legati sia ad una riduzione del tasso di colesterolo che viene assorbito (e soprattutto ad una modifica nel profilo lipidico) ma soprattutto all’effetto pleiotropico anti-infiammatorio, con stabilizzazione delle placche e modificazioni nel metabolismo che rendono il paziente meno incline allo sviluppo di rotture delle placche ateromasiche. I nitrati non si sono dimostrati efficaci in termini prognostici ed attualemnte vanno utilizzati in pazienti con ischemia in atto (al fine di ridurre l’ischemia ed il dolore), in pazienti con disfunzione ventricolare sinistra (per ridurre il precarico) ed in pazienti con ipertensione arteriosa (per ridurre il post-carico). Gli analgesici vanno impiegati sia per ovvi motivi etici che per evitare che il dolore possa favorire l’estensione dell’infarto (per incremento della frequenza cardiaca e del consumo di ossigeno) o la comparsa di aritmie

ARITMIE:

  • Aritmie ipercinetiche: nella fase acuta dell’infarto sono molto frequenti le ExV, anche se il loro valore predittivo per la comparsa di FV è quasi nullo e generalmente non richiedono un trattamento specifico (se non mediante somministrazione di K per portare la kaliemia oltre 4.0 mmol/l e magnesio per ridurre l’incidenza di ExV). In caso di TV non sostenuta si imposta una terapia con Lidocaina/Amiodarone (così come in caso di TV sostenuta ma emodinamicamente stabile), mentre in caso di TV sostenuta in stato di shock si procede alla cardioversione elettrica. Se compare una FV si defibrilla immediatamente il paziente. Il fenomeno aritmico presenta la sua massima presentazione nella fase calda dell’IMA (prime 24 ore), poi progressivamente regredisce.
  • Aritmie ipocinetiche (blocchi AV): sono condizioni molto più frequenti negli infarti inferiori per la presenza di innervazione vagale nei territori inferiori e per una vascolarizzazione locale che può provenire dalla coronaria destra; in alcuni casi può evolvere verso l’asistolia richiedente un pacing provvisorio. Generalmente sono forme che regrediscono spontaneamente a pochi giorni post-infarto. Nel caso ci sia un paziente ad alto rischio per aritmie nel periodo post-acuto, in sala di emodinamica si procede all’impianto di un PM con elettrodi venosi.
  • Fibrillazione atriale: è un’evenienza rara che rappresenta di solito un epifenomeno dello scompenso cardiaco (quindi di un infarto più esteso); se il paziente è emodinamicamente stabile si procede con Amiodarone e Digitale (previa scoagulazione), mentre se il paziente è emodinamicamente instabile si procede alla cardioversione elettrica.



FASE OSPEDALIERA TARDIVA:
Nella fase ospedaliera acuta ma post-trattamento d’urgenza, è fondamentale che il paziente rimanga allettato e venga costantemente monitorato dal punto di vista clinico, ECG, laboratoristico ed Ecocardiografico al fine di confermare il progressivo miglioramento e diagnosticare precocemente la comparsa di complicanze e/o recidive. Le possibili complicanze (oltre alle aritmie iper/ipocinetiche di cui abbiamo già trattato) sono la disfunzione sistolica e/o le complicanze meccaniche, tutte condizioni che richiedono una diagnostica accurata ed un pronto intervento.

DISFUNZIONE VENTRICOLARE:

  • Forme asintomatiche: la diagnosi viene posta mediante ecocardiografia dimostrando una funzione contrattile inferiore al 40%, in assenza di alcun sintomo di scompenso; di solito è l’esito di un infarto esteso. E’ fondamentale impostare nei primi giorni una terapia con ß-bloccanti, ACE-inibitori ed antialdosteronici al fine di ridurre l’evoluzione verso scompensi cardiaci e mortalità a distanza (elettrica/meccanica).
  • Shock cardiogeno: si ha un paziente dispnoico, tachicardico, pallido e sudato, cianotico nei casi gravi, con rantoli polmonari (prima bibasilari, poi a tutto l’ambito) ed un terzo tono; spesso si ha un polso piccolo ed una progressiva ipotensione con desaturazione. Generalmente avviene per: infarti estese, recidiva di infarto post-trattamento, comparsa di una complicanza meccanica. L’ecocardiografia è fondamentale nel porre una corretta diagnostica differenziale fra tutte queste forme, pur sapendo che questi pazienti presentano una mortalità che varia fra il 20-25% (superando il 50% in caso di shock cardiogeno). E’ poi fondamentale impostare una terapia generica di supporto di circolo ed una terapia specifica per la causa che ha generato lo shock; per la terapia generica si cerca di ridurre il precarico (diuretici IV, Nitrati IV, Morfina IV), migliorare la contrattilità (inotropi IV, controplusatore aortico, assistenza ventricolare), incrementare l’ossigenazione (ossigeno-terapia in maschera, ventilazione meccanica), correggere l’acidosi (bicarbonati) e ridurre il post-carico (vasodilatatori IV, ACE-inibitori OS) come in caso di shock cardiogeno (si veda il capitolo dedicato alla gestione del supporto dello shock cardiogeno, Capitolo 2.7.6); per la terapia specifica se la causa specifica è di tipo meccanico, generalmente è necessario un intervento chirurgico a diversa invasività per il trattamento, mentre se il problema è una disfunzione ventricolare il trattamento è di tipo medico.

COMPLICANZE MECCANICHE:
Sono complicanze che generalmente non avvengono subito ma si manifestano con una latenza che va dalle 24 ore ad alcuni giorni, tipicamente secondario all’arrivo nella zona colpita di cellule infiammatorie, dove il rilascio di mediatori litici porta ad un incrementato rischio di rottura della parete. Per avere la rottura di parete è necessario un infarto transmurale e che il vaso resti occluso; ad oggi le tecniche moderne di ricanalizzazione hanno ridotto l’incidenza di tali complicanze attorno all’1%, riducendo tale quota a quei pazienti che presentano un infarto ad ingresso tardivo, che non vengono riperfusi.

  • Rottura della parete libera: avviene per la lisi della parete libera, con fuoriuscita di sangue dal ventricolo ed accumulo nello spazio pericardico che, sotto pressione, comprime le camere destre fino al tamponamento cardiaco, con morte del paziente. Sono soprattutto pazienti anziani (con ingresso tardivo e tarda riperfusione) e/o pazienti non totalmente riperfusi (con persistenza del sovraslivellamento del tratto ST), spesso favoriti dall’ipertensione arteriosa. Raramente il paziente sopravvive; in quei pochi casi è fondamentale portare il paziente in sala operatoria e chiudere mediante patch l’area danneggiata.
  • Rottura del setto/muscolo papillare: quando un paziente nei primi giorni post-infarto sviluppa improvvisamente edema polmonare e/o shock le cause più frequenti sono la rottura del setto interventricolare e/o del papillare (sono condizioni ad elevata mortalità). La diagnosi viene sospettata mediante la clinica (comparsa di un nuovo soffio a differente irradiazione) e confermata mediante TTE. Il trattamento è quello di un intervento cardiochirurgico in urgenza per la chiusura del setto interventricolare mediante patch oppure la sostituzione valvolare mitralica; in questi casi la mortalità operatoria è ancora elevata (30% mitralico, 50% setto). La rottura del setto è una complicanza che generalmente si manifesta entro 1 settimana dall’infarto, soprattutto per pazienti sottoposti a trombolisi; la diagnosi di certezza si pone tramite ecocardiografia e/o tramite cateterismo polmonare (elevate saturazioni nelle camere destre); la presenza di disfunzione ventricolare destra e l’ipotensione arteriosa sono parametri prognostici importanti. La terapia è quella di ridurre il post-carico (per ridurre lo shunt sinistro-destro), dei diuretici ed eventualmente del contropulsatore aortico in attesa della terapia definitiva chirurgica.

ARITMIE VENTRICOLARI:
Nella maggior parte dei pazienti le aritmie scompaiono dopo la fase acuta dell’infarto, ma in alcuni soggetti si possono ripresentare ed in questo caso sono predittive di morte. La valutazione del rischio aritmico è stata per anni complessa e frustrante, dato che i farmaci anti-aritmici si sono spesso dimostrati inefficaci e/o dannosi (per il loro potenziale pro-aritmogeno, inotropo negativo, ecc…). Oggi il problema è stato in parte superato mediante l’impianto di un ICD (Implantable Cardiac Defibrillator) a livello sottocutaneo che è in grado di identificare la TV-FV ed erogare una scarica elettrica per defibrillare il cuore. Le indicazioni sono certe nei pazienti che nella fase post-infarto sviluppano TV-FV spontaneamente (non indotta da ischemia), mentre nelle altre situazioni è in funzione del grado di disfunzione ventricolare sinistra misurata ad 1 mese:

  • EF inferiori a 35%: devono essere sintomatici NYHA III-IV nonostante terapia farmacologica piena ed avere un QRS allargato (oppure stretto, ma con TTE che mostra chiaramente mediante analisi TDI un’asincronia delle pareti). In questi casi l’ICD si è dimostrato in grado di aumentare la sopravvivenza riducendo il numero di morti per aritmie, ma aumentando il numero di riacutizzazioni di scompensi cardiaci; questi è in parte ulteriormente riducibile se il paziente viene sottoposto ad impianto di ICD-CRT potendo individuare la parete asincrona ed impiantare localmente il lead del resincronizzatore.
  • EF fra 35-40%: generalmente sono pazienti a bassa probabilità di sviluppare aritmie per cui non vengono candidati all’impianto di ICD; se clinicamente e/o all’ECG si registrano aritmie e/o è elettricamente instabile, è utile eseguire un Holter 24 ore per identificare pazienti con episodi di TV non sostenute che beneficierebbero di uno studio elettrofisiologico per un eventuale impianto di ICD (nel caso in cui si dimostri una possibile induzione di TV).
  • EF superiore a 40%: non viene indicato l’impianto di ICD per il basso rischio di aritmie fatali.


STRATIFICAZIONE DEL RISCHIO PRE-DIMISSIONE:
La mortalità ospedaliera dell’infarto è attorno al 2-3%, mortalità che appare ulteriormente ridotta nel paziente giovane, non diabetico, con malattia monovasale ed adeguata-tempestiva riperfusione mediante angioplastica primaria; in questi casi il ricovero dura meno di 5 giorni. L’outcome del paziente post-infarto dipende da tre parametri quali: la presenza di ischemia residua, la funzione ventricolare e/o dalla presenza di aritmie (di cui abbiamo già trattato). E’ pertanto fondamentale valutare adeguatamente tutti e tre questi parametri per poter stratificare i pazienti in base al rischio clinico.

Ischemia residua:
Angioplastica primaria: nei pazienti sottoposti a tale trattamento questa valutazione di solito non è necessaria, dato che l’anatomia coronarica è nota e la lesione colpevole è stata trattata. Generalmente il paziente viene rivalutato a 6-12 mesi, rivalutando, in caso di patologia multivasale, il procedere clinico.
Trombolisi: nei pazienti sottoposti a tale trattamento è fondamentale eseguire un test provocativo d’ischemia, al fine di identificare quali pazienti presentino ischemia residua a bassa soglia ed inviarli al laboratorio di emodinamica per una coronarografia diagnostica ed eventualmente terapeutica (mediante PTCA/CABG). I pazienti con ischemia residua ad alta soglia presentano un percorso che va personalizzato sulla base delle caratteristiche del paziente (meglio una coronarografia in un paziente giovane, attivo, senza patologie associate life-threatening, ecc…).

Funzione ventricolare:
La funzione ventricolare residua (valutata mediante Ecocardiografia TT) rappresenta il determinante prognostico più importante nel post-infarto; generalmente nei pazienti trattati mediante angioplastica primaria il ventricolo sinistra presenta una EF conservata e non appare dilatatato. In caso di infarto esteso (generalmente anteriore) e/o non efficacemente riperfuso, il ventricolo sinistro comincia a dilatarsi, con una funzione globale che si riduce e la comparsa di una insufficienza mitralica funzionale (si parla di rimodellamento maladattativo). In questi casi va precocemente impostata una terapia farmacologica per la disfunzione ventricolare sinistra sistolica. 

Nei pazienti con infarto anteriore ed una riperfusione non completamente efficace, si può sviluppare un aneurisma apicale nel ventricolo sinistro (definito come zona discinetica dotata di un colletto che la delimita dal resto del ventricolo sinistro) che può portare a scompenso cardiaco, tromboembolie ed aritmie ventricolari. È una condizione che é da sospettare se clinicamente si ha un atto discinetico, una persistenza di un sopraslivellamento del tratto ST nelle derivazioni anteriori nei giorni post-IMA e si diagnostica mediante ecocardiografia TT oppure ventricolografia. La terapia é generalmente di tipo farmacologico (prevenzione dello scompenso cardiaco, di aritmie e di trombosi) per almeno 3 mesi, mentre in caso di peggioramento si procede alla terapia chirurgica mediante aneurismectomia.


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