Lo shock cardiogeno è definito come uno stato di ipoperfusione critica dei diversi organi a causa di una gittata cardiaca ridotta; in particolare, lo shock cardiogeno costituisce uno spettro di patologie che vanno da situazioni di lieve ipoperfusione a situazioni di profondo shock generalizzato. I criteri stabiliti per la diagnosi di shock cardiogeno sono i seguenti: (1) la pressione arteriosa sistolica inferiore a 90 mmHg per 30 minuti o la pressione arteriosa media inferiore a 65 mmHg per 30 minuti oppure la presenza di vasopressori per raggiungere una pressione arteriosa superiore a 90 mmHg; (2) la presenza di una congestione polmonare o elevate pressioni di riempimento ventricolare sinistro; (3) dei segnali di alterata perfusione d'organo con almeno uno dei seguenti criteri: (a) alterazione dello stato mentale; (b) cute fredda, pelle umida; (c) oliguria; (d) aumento di lattato sierico.
Contrariamente allo shock settico, non ci sono raccomandazioni internazionali in materia di gestione di shock cardiogeno in ICU; recentemente la Società Europea di Cardiologia (ESC) ha istituito delle linee guida sulla gestione dell’insufficienza cardiaca acuta, linee guida che sono state ulteriormente approfondite dalla Società di Rianimazione ed Anestesia francese che ha recentemente pubblicato ulteriori raccomandazioni in merito.
EPIDEMIOLOGIA:
In oltre il 70% dei casi, lo shock cardiogeno è legato alla presenza di infarto miocardico acuto con sopraslivellamento del tratto ST, con o senza complicanze meccaniche (come rottura del setto, della parete ventricolare o delle corde tendinee). Tuttavia, uno shock cardiogeno si verifica raramente durante un infarto miocardico (dal 4.2 al 8.6% dei casi) ed è epidemiologicamente in declino. L’uso dell’ECG, della troponina ripetuta e del BNP devono essere eseguiti di routine, considerando eventualmente l’aggiunta di un’angiografia coronarica. I pazienti in stato di shock o con un alto rischio di sindrome coronarica devono essere ospedalizzati, preferibilmente in terapia intensiva. Ad eccezione dei pazienti con assistenza ventricolare, nei pazienti con shock cardiogeno la mortalità immediata é di circa il 40%, con i sopravvissuti che presentano una buona prognosi ed una buona qualità della vita. Pertanto ogni volta che si presenta un quadro di shock cardiogeno, si dovrebbe procedere ad individuare una causa coronarica. Viceversa, in caso di infarto miocardico acuto, i predittori di una progressione verso lo shock cardiogeno, si devono cercare in tutta la categoria di pazienti, in particolare quando si ha una frequenza cardiaca a riposo superiore ai 75 bpm e si hanno segni di insufficienza cardiaca. I predittori epidemiologici sono l'età, la frequenza cardiaca all’ammissione al di sopra di 75 bpm, il diabete mellito, un pregresso infarto miocardico, un intervento chirurgico di bypass aorto-coronarico, la presenza di segni di insufficienza cardiaca al momento del ricovero, e un infarto in sede anteriore.
L'angiografia coronarica, seguita dalla rivascolarizzazione coronarica mediante intervento chirurgico di bypass o angioplastica coronarica, è richiesto in caso shock cardiogeno secondario ad infarto miocardico acuto, indipendentemente dell'intervallo di tempo da quando si ha avuta l'insorgenza del dolore. Negli anni ’90 lo studio multicentrico chiamato SHOCK ha valutato una rivascolarizzazione precoce verso una stabilizzazione medica con ritardo della procedura, andando ad analizzare la mortalità ad un mese (senza particolari differenze) ad un anno (riduzione della mortalità dal 56% al 46%) ed a 6 anni. Lo studio non ha mostrato tale miglioramento nel sottogruppi di pazienti con oltre 75 anni d’età, anche se alcuni registri sembrano andare nella direzione opposta. Le linee guida ESC sull’infarto miocardico raccomandano la rivascolarizzazione indipendentemente l'intervallo di tempo dall'inizio della dell'infarto. Le linee guida ESC suggeriscono ancora l'uso della trombolisi se l’angioplastica non può essere eseguita rapidamente (entro 2 ore), con trasferimento secondario ad un centro con una angioplastica coronarica ed un’unità di cardiochirurgia.
I pazienti che presentano uno shock cardiogeno secondario ad infarto miocardico generalmente dovrebbero ricevere delle cure a carattere multidisciplinare; l’angioplastica coronarica è il trattamento di riferimento, mentre la cardiochirurgia appare come parte integrante del trattamento di salvataggio, attraverso la chirurgia di bypass di emergenza, il trattamento delle complicanze meccaniche, o il possibile impianto di dispositivi di assistenza cardiaca. È pertanto auspicabile trasferire i pazienti post-shock cardiogeno su infarto miocardico o con infarto miocardico e più predittori di shock cardiogeno a un centro di pertinenza, con possibilità di supporto cardiaco, e addirittura il trapianto di cuore.
PRE-OSPEDALIERO E PRONTO SOCCORSO:
Nella fase di cura preospedaliera di shock senza una causa evidente, uno shock cardiogeno deve essere sospettato ed un ECG a 12 derivazioni deve essere eseguito; sempre nella fase preospedaliera, l'alta pressione sanguigna diastolica suggerisce una diminuzione di eiezione ventricolare, evocando un’ipovolemia o un’insufficienza cardiaca. Inoltre, in assenza di segni di edema polmonare acuto o sovraccarico del ventricolo destro, l'espansione del volume deve essere eseguita con attenzione. Nella fase preospedaliera e cure d'emergenza, il vasocostrittore di scelta è noradrenalina.
MONITORING IN ICU:
Il catetere arterioso deve essere posizionato per monitorare la pressione sanguigna, fornendo una lettura continua della pressione arteriosa diastolica (PAd), intesa come la pressione-guida durante il rilassamento e la dilatazione dei ventricoli. La PAd è influenzata dal tono arterioso periferico, dalla frequenza cardiaca e dalla compliance arteriosa. In un paziente senza bradicardia, una bassa PAd è generalmente collegata ad un calo del tono arterioso e richiede l'uso di un vasopressori o un aumento nel loro dosaggio se la pressione arteriosa media è inferiore a 65 mmHg.
Anche il lattato plasmatico dovrebbe essere analizzato più volte, per valutare la persistenza o correzione dello shock durante il trattamento. I markers sulla funzione degli organi devono essere ripetutamente controllati (in particolare per reni, fegato) ed un catetere venoso centrale andrebbe inserito nella vena cava superiore per monitoraggio intermittente (prelievo di sangue) o continuo (fibra ottica) della misurazione della saturazione di ossigeno venoso centrale (ScvO2). Poiché la cateterizzazione di vene centrali è obbligatorio in stato di shock, in particolare in shock cardiogeno, l'uso di questo catetere è consigliato per la misurazione della saturazione di ossigeno venoso centrale (ScvO2), che indica se la gittata cardiaca sia appropriata alle condizioni metaboliche, fornendo informazioni utili per l'adeguamento del trattamento (si veda quanto già discusso nei capitoli precedenti sulla distribuzione e consumo d’ossigeno, Capitolo 2.1.1). Di contro, la PVC non dovrebbe essere misurata a causa dei vincoli di misura e dei suoi limiti come marcatore di precarico e di precarico-dipendenza, preferendo parametri con una maggiore affidabilità.
In caso di shock refrattario alla terapia empirica, la gittata cardiaca così come saturazione di ossigeno venoso misto (SvO2) o ScvO2 devono essere continuamente monitorati; in caso di shock cardiogeno con disfunzione destra appare inoltre utile discutere per la posa di un catetere Swan-Ganz, anche se non esiste un accordo unanime sul suo utilizzo. Nei casi complessi si consiglia l'uso di un monitor di termodiluizione transpolmonare con analisi dell'onda di polso (continuo o intermittente) della saturazione di ossigeno venoso misto (SvO2) o ScvO2, in particolare quando lo shock cardiogeno è refrattario al trattamento iniziale, in assenza di assistenza meccanica e di disfunzione ventricolare destra predominante. L’ecocardiografia di routine (TTE o TEE) dovrebbe essere utilizzata per identificare la causa dello shock, per le successive valutazioni emodinamiche, e per l'individuazione e il trattamento delle complicanze (come il tamponamento).
GESTIONE PRESSIONE/GITTATA IN ICU:
Una pressione arteriosa media di almeno 65 mmHg dovrebbe essere raggiunto mediante terapia con vasopressori o inotropi, eventualmente con limiti di pressione superiori quando vi è una storia di ipertensione arteriosa non trattata. In analogia con shock settico, la pressione arteriosa media di destinazione deve essere aumentata a 65-70 mmHg ma non oltre, in quanto una pressione più elevata non è mai stata associata ad un esito più favorevole (ad eccezione di pazienti precedentemente ipertesi, ma sono situazioni selezionate). La noradrenalina dovrebbe essere utilizzata per ripristinare la pressione di perfusione coronarica durante lo shock cardiogeno; l’unico studio randomizzato che ha confrontato due tipi di vasopressori: norepinefrina vs epinefrina ha dimostrato che, per ottenere la stessa efficacia emodinamica, l’epinefrina è stata associata ad un più alto tasso di aritmie cardiache e di acidosi lattica; in un altro studio si é dimostrata inoltre una riduzione della mortalità con noradrenalina rispetto all’uso di dopamina. L'adrenalina pertanto può essere una alternativa terapeutica alla combinazione di dobutamina e noradrenalina, ma è associato ad un maggior rischio di aritmie, tachicardie ed iperlattatemia di origine metabolica, che ostacola l’interpretazione del lattato come marker dell’ipoperfusione tissutale.
La dobutamina deve essere utilizzato per il trattamento di una bassa portata cardiaca per disfunzione sistolica di grado moderato/importante. In termini di emodinamica e di endpoint metabolici, rispetto all’adrenalina, i risultati con la Dobutamina mostrano meno aritmie, meno consumo di ossigeno del miocardio, e un minore aumento della concentrazione di lattato. Rispetto alla dopamina, l'aumento della gittata cardiaca è meno marcato con la dobutamina, ma a costo di una maggiore riduzione di pressione sanguigna pressione. Dobutamina deve essere utilizzato alla dose più bassa possibile, a partire da 2 ug/kg/min. La sua titolazione si basa su l'indice cardiaco e sulla SvO2. La dopamina non deve mai essere utilizzata.
Gli inibitori della fosfodiesterasi o il levosimendan non devono essere utilizzati come farmaci di prima linea; tuttavia, questa classe di farmaci, e in particolare il Levosimendan, sono in grado di migliorare l'emodinamica dei pazienti con shock cardiogeno refrattario alle catecolamine. Vi è un razionale farmacologico per l'uso di questo strategia in pazienti in trattamento con beta-bloccanti cronici. Uno shock cardiogeno refrattario alle catecolamine può essere quindi trattato con perfusione di inibitori della fosfodiesterasi o levosimendan: mentre tutte le due classi di farmaci migliorano l'emodinamica macrocircolatoria, solo il levosimendan sembra migliorare la prognosi, migliorando le prestazioni del miocardico tramite l’aumento della sensibilità dei miofilamenti al calcio, senzaaumentare il calcio intracellulare e le concentrazioni di AMP (si veda il capitolo dedicato agli inotropi, Capitolo 2.1.2). C'è una logica farmacodinamica per l'utilizzo di levosimendan in pazienti in trattamento con beta-bloccanti cronici; in caso di shock cardiogeno refrattario alle catecolamine, inoltre sembra logico considerare l'uso di un supporto circolatorio piuttosto che un maggiore sostegno farmacologico.
SHOCK CARDIOGENO ED ARRESTO CARDIACO:
A causa della sua elevata prevalenza, una causa cardiogena dovrebbe regolarmente essere ricercata con l'ecocardiografia durante l'assistenza post-arresto cardiaco; la mortalità precoce è vista in una grande percentuale di pazienti ricoverati in terapia intensiva dopo rianimazione cardiopolmonare a causa di shock. Come già discusso precedentemente, in caso di shock cardiogeno con arreso cardiaco, specialmente nei ritmi defibrillabili, una coronarografia di routine è fortemente raccomandata. La cardiopatia ischemica, in una cornice di sindrome coronarica acuta o di cardiopatia cronica, è attualmente la ragione principale per la rianimazione cardiopolmonare nel mondo occidentale. Tenendo questo in mente, alcuni autori hanno proposto coronarografia di routine nella gestione dell’arresto di presunta origine cardiaca, in modo da rilevare, e se necessario trattare, un eventuale occlusione coronarica acuta. Diversi studi hanno riportato che l’angioplastica coronarica viene eseguita tra il 26 e il 50% dei casi nella fase iniziale di un arresto cardiaco acuto (sul principio che l’angioplastica viene eseguita quando l’occlusione coronarica acuta è ritenuta responsabile dell'arresto cardiaco). In contrasto con questi alti tassi di occlusione coronarica, le strategie non invasive per la diagnosi di occlusione coronarica acuta sono, al momento, deludenti. Modifiche del tratto ST e aumento della troponina sono insufficientemente discriminatorie rispetto al potenziale beneficio di corretta condotta rivascolarizzazione coronarica. Durante la fase post-arresto cardiaco su shock cardiogeno, l’ipertermia deve essere evitata, gestendo il controllo della temperatura tramite metodiche non invasive o invasive (Coolgard o ArticSun).
TERAPIE AVANZATE:
L’uso del contropulsatore aortico non deve essere utilizzato in caso di shock cardiogeno nel contesto di un infarto miocardico gestito in modo efficace e rapido tramite angioplastica; nello studio SHOCK II non é stata riscontrata alcuna differenza significativa nella mortalità a 30 giorni in questo gruppo di pazienti con/senza l’uso del contropulsatore, in particolare pazienti con pressione arteriosa sistolica inferiore a 80 mmHg. Secondo le raccomandazioni ESC, la contropulsazione può essere utilizzata in caso di rivascolarizzazione da trombolisi o in assenza di rivascolarizzazione iniziale, oppure se le terapie quali l’ECMO, l’Impella ed altri devices percutanei di assistenza cardiaca non sono accessibili.
Difatti nel caso sia necessario un supporto circolatorio temporaneo, l'uso dell’ECMO V-A viene preferito (per accenni sull’ECMO si vedano i capitoli dedicati, Capitoli 12.5.1 e 12.5.2), riducendo il precarico ventricolare, a scapito di un aumento del post-carico ventricolare sinistro. ECMO è attualmente il dispositivo più economico e più lunga durata ed é l'unico dispositivo che contiene inoltre un supporto respiratorio completo; appare inoltre più facile da configurare rispetto ad altri dispositivi. L’ECMO può inoltre essere rapidamente implementato al letto. Numerosi studi hanno riportato l'uso dell’ECMO nello shock cardiogeno refrattario in caso di infarto miocardico o di miocardite, dopo chirurgia cardiaca e nel caso di arresto cardiaco refrattario.
La posa e l’attivazione di un supporto circolatorio con ECMO V-A sul campo prima del trasferimento del paziente ad un centro specializzato è raccomandato; quando la condizione clinica del paziente con shock cardiogeno è ritenuta troppo precaria per consentire il trasferimento senza l’adeguato supporto circolatorio, un’unità mobile deve essere utilizzata per impostare rapidamente l’ECMO nel reparto dove il paziente viene trattato prima del trasferimento del paziente al centro specializzato. Non vi è alcuna meta-analisi o studio randomizzato per valutare data questa strategia, ma alcuni studi retrospettivi hanno riportato che questa strategia ha migliorato la prognosi dei pazienti, dimostrando la fattibilità e l'equivalenza della prognosi rispetto ai pazienti gestiti solo una volta arrivati in ospedale.
In caso di shock cardiogeno, la resincronizzazione ventricolare (CRT) è possibile in caso di blocco di branca sinistro con complesso QRS largo; le raccomandazioni ESC non menzionano lo shock cardiogeno come indicazione per la risincronizzazione (attenendosi agli studi MADIT e varianti). È pur vero che la risincronizzazione ha consentito il miglioramento della condizione clinica e lo svezzamento dagli inotropi nei pazienti con grave insufficienza cardiaca acuta (con classe NYHA III-IV). Un gruppo tedesco ha dimostrato che la risincronizzazione temporanea del ventricolo sinistro con un cavo posizionato nel seno coronarico (pur mantenendo la sincronizzazione AV sincrona con un elettrocatetere atriale destro) ha portato all’ottimizzazione deii parametri del microcircolo, riducendo le concentrazioni di acido lattico. Tuttavia, a causa della mancanza di dati di letteratura di alto livello, l'uso di routine in pazienti con shock cardiogeno non può essere raccomandato, a causa del rischio di complicanze infettive e delle complicanze meccaniche associate con l'impianto del pacemaker. Appare però certo che in pazienti con shock cardiogeno ed aritmia (come una fibrillazione atriale), il ripristino del ritmo sinusale o il rallentamento della frequenza cardiaca (qualora il ripristino non riesca), può rivelarsi utile in termini emodinamici. Per quello che concerne gli antitrombotici ai dosaggi usuali dovrebbero essere utilizzati nelle loro indicazioni riconosciute, tenendo presente che il rischio emorragico è maggiore in tali situazioni.
CHIRURGIA NELLO SHOCK CARDIOGENO:
Negli adulti che presentano stenosi valvolare aortica severa associata a shock cardiogeno, la stenosi aortica andrebbe gestita tramite valvuloplastica e, se necessario, sotto ECMO; un paziente che presenta con shock cardiogeno e grave stenosi aortica, in linea con le raccomandazioni internazionali ESC, si dovrebbe prevedere ad un trattamento di rimozione dell'ostacolo. Il trattamento chirurgico della stenosi aortica grave complicata da shock cardiogeno comporta un alto rischio chirurgico. Dati di letteratura per la valutazione dei risultati chirurgici in questi casi sono scarsi. Negli adulti che presentano una grave stenosi aortica responsabile dello shock cardiogeno, la riparazione della valvola o la sostituzione non dovrebbe essere eseguite come prima linea tramite impianto transcatetere; il posizionamento della valvola percutanea è attualmente controindicato nei pazienti con shock cardiogeno, anche se uno studio retrospettivo sembra dare risultati incoraggianti.
Negli adulti che presentano insufficienza valvolare aortica o mitralica responsabile dello shock cardiogeno, la valvola dovrebbe essere sostituita senza indugio; negli adulti che presentano una insufficienza mitralica responsabile dello shock cardiogeno, la contropulsazione e l’uso di farmaci vasoattivi/cardiaci possono essere utilizzati per ottenere un intervento chirurgico di stabilizzazione in corso, che dovrebbe essere eseguita immediatamente (entro le 12 ore). Nel caso di una comunicazione interventricolare, il paziente deve essere trasferito in un centro specializzato per l'assistenza e per discutere di un intervento chirurgico.
In alternativa alla Dobutamina, é possibile utilizzare il milrinone o il levosimendan nel trattamento di seconda linea dello shock cardiogeno dopo la chirurgia cardiaca; il levosimendan potrebbe essere usato come trattamento di prima linea dello shock cardiogeno dopo un intervento chirurgico di bypass coronarico. Dato che entrambi i gruppi di farmaci non agiscono sui recettori beta, questi sono potenzialmente utili nella gestione dello shock cardiogeno. Tuttavia, a causa delle loro azioni vasodilatatore prolungate devono essere maneggiati con cura. Il levosimendan è l'unico farmaco per cui uno studio randomizzato indica una significativa riduzione della mortalità nel trattamento dello shock cardiogeno dopo intervento chirurgico di bypass coronarico, in confronto con la dobutamina. E’ possibile inoltre utilizzare il Milrinone come trattamento di prima linea per aumentare l’inotropismo in caso di shock cardiogeno associata ad insufficienza ventricolare destra, per ridurre le pressioni vascolari polmonari (anche se l’accordo nella comunità scientifica non appare unanime).
POST-SHOCK CARDIOGENO:
Una volta che la fase acuta di shock cardiogeno è stata gestita, un trattamento orale tramite farmaci adeguato dell'insufficienza cardiaca dovrebbe essere attuato con monitoraggio stretto; in particolare dopo la sospensione dei farmaci vasopressori, il trattamento con beta-bloccanti, ACE-inibitori, antagonisti dell'aldosterone dovrebbero essere introdotti per migliorare la sopravvivenza, riducendo il rischio di aritmie e di recidiva di un episodio di insufficienza cardiaca. Il trattamento deve essere introdotta presto, al momento della revoca di farmaci vasopressori (a piccole dosi che vengono progressivamente aumentate). Se in alcuni casi l'introduzione della terapia è mal tollerata, si può instaurare una momentanea terapico vasopressori. I pazienti con insufficienza cardiaca acuta o shock cardiogeno associato a miocardite dovrebbero essere trasferiti in un centro specializzato, eventualmente sotto ECMO se necessario. Prima di porre una diagnosi di cardiomiopatia da stress, una malattia coronarica dovrebbe essere esclusa tramite una tecnica di imaging (angiografia coronarica o tomografia computerizzata) o di imaging ventricolare (ecocardiografia o ventricolografia o risonanza magnetica).
Lo shock cardiogeno è una malattia rara la cui gestione richiede una piattaforma tecnica multidisciplinare e squadre di medici specializzati e con esperienza. Dall’emergenza alla riabilitazione, il paziente deve essere gestita lungo un percorso di cura medica specialistica adeguata alla gravità effettiva o potenziale della sua condizione. Tale percorso deve essere pienamente riconosciuto da tutti i soggetti coinvolti (servizi medici di emergenza, pronto soccorso, cardiologia, terapia intensiva, reparti di cardiochirurgia), in particolare, dovrebbe essere disponibile un esperto nel centro di riferimento, per una consulenza telefonica in grado di offrire una consulenza specialistica costantemente.
CONCLUSIONI:
In questa sezione abbiamo voluto riassumere gli aspetti emodinamici e fisiopatologici più importanti concernenti l’attività cardiaca; siamo partiti dall’analisi dell’anatomia, della fisiologia e soprattutto della fisiopatologia dell’atrio destro e del ritorno venoso (Capitolo 2.7.1), per poi concentrarci sulle caratteristiche peculiari dell’atrio sinistro come funzione di condotto, reservoir e di pompa (Capitolo 2.7.3) e delle sue alterazioni progressive con l’avanzare della patologia ventricolare sinistra, per poi dedicare due interi capitoli alla disfunzione sistolica e diastolica ventricolare sinistra (Capitoli 2.7.2 e 2.7.4). Infine abbiamo brevemente accennato alla tipologia di terapia farmacologica necessaria per la gestione a breve termine dello scompenso cardiaco acuto, mostrando come lo svezzamento dai devices e dalla terapia deve eseguire un procedimento basato sulla fisiopatologia (Capitolo 2.7.5). Abbiamo poi terminato accennando a quelli che sono gli elementi peculiari dello shock cardiogeno e sulla presa a carico acuta di tale condizione che, seppure più rara rispetto ad altre forme di shock, appare dotata di elevata mortalità.
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