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Feocromocitoma (Capitolo 4.9)



Il feocromocitoma è una neoplasia caratterizzata dalla produzione, accumulo e rilascio periferico di catecolamine; è una neoplasia di derivazione midollarica surrenale, anche se può svilupparsi a partire dalle cellule cromaffini e/o dai gangli nervosi, in quest’ultimo caso si parla di paraganglioma.


Generalmente la malattia si presenta sotto forma di neoplasia solitaria a livello del surrene, unilaterale (80% dei casi), soprattutto a destra, anche se in alcune patologie può riscontrarsi come neoplasia bilaterale (10% dei casi) oppure come una neoplasia ectopica (10% dei casi, anche a disposizione cardiaca). La malattia tipicamente é benigna (in oltre il 90% dei casi) o maligna (raramente), con diverse dimensioni macroscopiche  che possono variare da 100 g fino a 3 Kg, da 1 a 10 cm di diametro). La diagnosi differenziale è spesso difficile anche all’esame istologico; l’unico reale metodo di classificazione è quello di valutare la malignità della malattia in caso di recidive e/o di metastasi.


Un aspetto importante da non dimenticare é che il feocromocitoma si può spesso presentare in ambito di patologie rare, patologie comunque importanti da conoscere perché possono associarsi/provocare danni irreversibili al sistema nervoso centrale. Si può avere un feocromocitoma in caso di sindromi con neoplasie endocrine multiple (Multiple Endocrine Neoplasia - MEN) ed in questi casi può essere associata al carcinoma midollare della tiroide, all’iperparatiroidismo (MEN di tipo 2a) e/o al carcinoma midollare della tiroide con habitus marfanoide (MEN di tipo 2b). Altre volte invece si instaura in pazienti con alterazioni genetiche del gene RET (un oncogene), o nel caso della malattia di Von Hippel Lindau (nel contesto di carcinoma di rene, pancreas, emangiomi cerebellari/retininici dovuti a mutazioni del gene VHL (TS), piuttosto che nel caso di neurofibromatosi (associazione non frequente, ma documentata più volte in letteratura) nell’ambito della mutazione del gene NGF o in caso di sclerosi tuberosa. Riscontrare pertanto un feocromocitoma deve portare il clinico all’attenzione sia sulla gestione del problema acuto, alla gestione delle complicanze ed anche ad inquadrare il contesto clinico globale.




FISIOPATOLOGIA:
Non si conosce molto sul funzionamento di queste cellule, anche se si pensa che probabilmente le alterazioni vascolari e/o la presenza di necrosi siano dei fattori stimolanti; è importante ricordare che le cellule NON sono innervate ed il rilascio di catecolamine non risulta legato alla stimolazione nervosa. Oltre al rilascio di grandi quantità di catecolamine, si ha inoltre secrezione di altri peptidi quali oppiodi, endoteline, eritropoietina, PTH, neuropetpide Y, cromogranina A, ecc…), anche se la secrezione maggiore é di noradrenalina, seguita da adrenalina. Proprio nell’ambito delle sindromi multi-organiche, quando si riscontrano alti livelli di adrenalina rispetto a noradrenalina, si deve sospettare una MEN che appunto presenta un profilo biochimico differente.



DIAGNOSI:
Il feocromocitoma può comportare la produzione di mediatori circolanti, con eccesso di catecolamine; tali mediatori provocano ipertensione, sudorazione, tachicardia, e parestesie delle mani e dei piedi, con attacchi che possono durare da minuti a giorni, con frequenza di più volte al giorno o più di rado, una volta al mese. In letteratura si parla di un’ipertensione che nel 60% dei casi è sostenuta e continua, mentre il 40% dei pazienti va incontro a crisi ipertensive parossistiche, più frequentemente maligne e resistenti alla terapia farmacologica. I segni clinici per infine sospettare un feocromocitoma sono le 4 P: Pallor, Pain, Palpitation, Pressure piuttosto che una ipertensione arteriosa severa, di difficile controllo clinico.

Al laboratorio si devono dosare le concentrazioni plasmatiche/urinarie delle catecolamine e dell’acido vanil-mandelico su 24 ore. Il metodo é particolarmente sensibile, anche se l’accuratezza diagnostica migliora con 2-3 dosaggi in giorni differenti. Per quello che riguarda la specificità del test bisogna porre attenzione a patologie che in maniera secondaria aumentano le concentrazioni plasmatiche di catecolamine e che si pongono in diagnosi differenziale, quali l’infarto miocardico acuto, l’astinenza da alcol/cocaina, episodi acuti di ipoglicemia, farmaci (teofilline, β-bloccanti) e la sospensione acuta di clonidina. Generalmente per feocromocitomi durante una crisi acuta il tasso di catecolamine circolanti é estremamente elevato, ma possono esserci situazioni di overlap che possono rendere più difficile la diagnosi, richiedendo l’aggiunta di esami aggiuntivi.

L’uso infatti di TC/RMN permettono di localizzare la presenza di una neoplasia, generalmente a livello surrenalico (ma non solo, bisogna ricordare che il 10% dei casi sono extra-surrenalici) anche se essendo esami a carattere morfologico, assumono significato diagnostico nel contesto clinico globale quando vengono associati ad test funzionali. Generalmente si utilizza il dosaggio delle metanefrine urinarie, oppure in ambito di medicina nucleare si utilizza il MIBG (meta-iodio-benzil-guanidina), che viene captato dalla midollare del surrene in caso di feocromocitoma; fra gli effetti spiacevoli é da ricordare che è un esame che usa un tracciato a lunga emivita (che dura 7 giorni), è costoso ed indaginoso. Generalmente viene usato come ultima scelta se altri test funzionali non risultano conclusivi o non sono eseguibili.

I test di inibizione prevedono la somministrazione di clonidina 2 cp PO, controllando a 2-3 h le catecolamine plasmatiche; se il paziente è sano si ottiene la riduzione della pressione arteriosa e delle catecolamine, mentre se il paziente presenta un feocromocitoma le catecolamine plasmatiche non si riducono in concentrazione. Il test di stimolo invece, prevede la somministrazione di glucagone (che deve essere eseguito in terapia intensiva): se il paziente presenta  un feocromocitoma si ha un aumento delle catecolamine e della pressione arteriosa; il paziente viene quindi trattato con nitroprussiato/fentolamina IV per il controllo della pressione.


TERAPIA:
La terapia acuta é una condizione di emergenza medica dove si deve trattare la crisi ipertensiva e la situazione di ipertensione acuta mediante diversi farmaci anti-ipertensivi, quali fentolamina, sodio nitroprussiato, nitrati IV ed eventualmente nifedipina IV. Bisogna ricordarsi che sono da evitare l’uso solitario di beta-bloccanti, che aumentano il rischio di edema polmonare per una inibizione della funzione cardiaca con aumento improvviso del post-carico.

La terapia elettiva finale é chirurgica; la preparazione avviene mediante terapia medica: il paziente deve essere preventivamente ricoverato in un ambiente monitorizzato dove si imposta una terapia con un α-bloccante (tipicamente la fenossibenzamina), controllando la pressione arteriosa ogni 2h. è da ricordare che la fenossibenzamina è potenzialmente tossica, e deve essere usata a breve termine. Quando si raggiunge la dose massima di α-bloccante e si può pertanto presumere che tali recettori sono saturati, si passa alla somministrazione di β-bloccanti (generalmente Labetalolo IV), ma sempre e solo dopo l’α-bloccante, per evitare il rischio di edema polmonare acuto. Quando il paziente sotto duplice terapia α/β-bloccante presenta una pressione inferiore a 120/80 mmHg per due giorni consecutivi, si ritiene sia considerato pronto per essere sottoposto ad intervento chirurgico.  L’intervento chirurgico avviene generalmente mediante laparoscopia (con lo scopo di ridurre i rischi intraoperatori): i tempi chirurgici prevedono l’accesso alla cavità addominale, il clampaggio delle vene surrenaliche (per evitare il rilascio di catecolamine in circolo durante la manipolazione surrenalica), seguito dal campeggio arterioso e dalla rimozione del surrene. Il paziente viene monitorizzato in maniera invasiva, con pronta terapia IV tramite Nitroprussiato, e fenossibenzamina.


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