Lo shock è l'espressione clinica di un’insufficienza circolatoria che comporta un insufficiente utilizzo di ossigeno a livello cellulare. Shock è una condizione comune in terapia intensiva, che colpisce circa un terzo dei pazienti ricoverati. Una diagnosi di shock si basa sulla clinica, sull’emodinamica e sui segni biochimici; la condizione può ampiamente essere riassunta in tre componenti. Innanzitutto, l’ipotensione arteriosa sistemica è generalmente presente, anche se l’entità della ipotensione può essere solo moderata, specialmente in pazienti che soffrono di ipertensione cronica. In secondo luogo, ci sono dei segni clinici di ipoperfusione tissutale che sono evidenti attraverso le tre finestre corporee: la finestra cutanea (la pelle appare fredda e umida, con vasocostrizione e cianosi, i risultati sono più evidenti nei circuiti vascolari a basso flusso), la finestra renale con una diuresi inferiore a 0,5 ml/Kg/h e la finestra neurologica con stato mentale alterato, ottundimento, disorientamento e confusione. In terzo luogo, é presente un’iperlattatemia che indica un’anormale metabolismo dell'ossigeno cellulare.
Lo shock settico, una forma di shock distributivo, è la forma più comune di shock tra i pazienti in terapia intensiva (62%), seguita dallo shock cardiogeno (16%) e dallo shock ipovolemico (16%). Il tipo e la causa di shock possono essere evidenti dall’anamnesi, dall’esame obiettivo e dalle indagini cliniche. Ad esempio, episodi di shock post-traumatici generalmente sono di tipo ipovolemico su sanguinamento, ma possono anche verificarsi shock cardiogeni o distributivi, da soli o in combinazione, causata da condizioni come il tamponamento cardiaco o lesioni del midollo spinale. Un esame clinico completo deve comprendere la valutazione della cute e la temperatura, l’analisi dello status vascolare giugulare e di eventuale edema periferico. La diagnosi può essere ulteriormente raffinata con la valutazione point-of-care ecocardiografica ed ulteriori esami diagnostici.
DEFINIZIONI:
La sepsi è un processo letale, che possiede una mortalità intrinseca dal 25% al 60%, caratterizzata da una risposta infiammatoria sistemica provocata da un processo infettivo; lo sviluppo di condizioni cliniche più severe (come la sepsi severa e lo shock settico) portano la mortalità intrinseca della patologia attorno all’80%. La definizione pragmatica di sepsi prevede la presenza di una SIRS con forte sospetto di uno stato infettivo quale causa della SIRS stessa. La SIRS si può definire con i seguenti criteri: tachicardia (oltre 90 bpm), tachipnea (oltre 20 atti/min), ipertermia (oltre 38°C) o ipotermia (sotto ai 36°C), leucocitosi (oltre 11 G/l) o leucopenia (inferiore a 4 G/l) ed eventualmente febbre. La sepsi è una condizione dove il microrganismo è in grado di alterare notevolmente l’omeostasi dell’organismo sia a livello macroscopico (in termini di pressione arteriosa, ossigenazione, ecc…) ma soprattutto a livello microscopico proprio in ambito cellulare (con sviluppo di un metabolismo anaerobico, rilascio di lattati, apoptosi, rilascio di citochine, chinine, aumento delle proteine di fase acuta, ecc...). Si parla invece di sepsi severa quando in aggiunta alla sepsi si hanno delle disfunzioni di organo, mentre si parla di shock settico quando si associa alla spesi severa un’instabilità emodinamica. Tutte queste definizioni in realtà definiscono un continuum di un’unica patologia, dove la disfunzione cellulare metabolica diviene sempre più evidente, con conseguenze macroscopiche sempre maggiori. Quello che bisogna tenere a mente quando si parla di shock settico e della sua gestione, é che si devono fronteggiare due fronti: il lato infettivo (come causa della patologia settica) ed il lato infiammatorio, dato che é la risposta infiammatoria dell’organismo talmente forte da mettere in pericolo di vita il paziente stesso.
PATOGENESI DELLO SHOCK
RISPOSTA DELL’OSPITE:
Come è emerso negli anni quando si é andato a sviluppare il concetto della “teoria dell'ospite”, si é compreso come le caratteristiche cliniche della sepsi erano il risultato dell'infiammazione eccessivamente esuberante, dettata dall’equilibrio fra la noia patogena e la risposta infiammatoria dell’organismo. Più tardi, é avanzata l'idea che la risposta infiammatoria iniziale abbia dato modo ad una successiva "sindrome di risposta antiinfiammatoria compensativa”, anche se poi negli anni è risultato evidente che l'infezione provoca una risposta molto più complessa, variabile e prolungata, in cui entrambi i meccanismi proinfiammatori ed antiinfiammatori possono contribuire alla clearance dell'infezione e al recupero dei tessuti da un lato, ma anche al danno d’organo ed allo sviluppo di infezioni secondarie dall'altro. La risposta specifica in ogni paziente dipende pertanto dalla noia patogena (carica batterica e virulenza per lo shock settico) e dall'ospite (caratteristiche genetiche e malattie coesistenti), con risposte differenziali a livello locale, regionale e sistemico (si veda la figura). La composizione e la direzione della risposta dell'ospite probabilmente cambiano nel tempo, parallelamente al corso clinico; in generale, le reazioni proinfiammatorie (dirette ad eliminare i patogeni invasori) sono ritenute responsabili dei danni dei tessuti collaterali in gravi sepsi, mentre le risposte antiinfiammatorie (importanti per limitare il danno tissutale e sistemico) sono implicate nell’aumentata suscettibilità alle infezioni secondarie.
IMMUNITÀ INNATA:
La conoscenza del riconoscimento di patogeni è aumentata enormemente nell'ultimo decennio. I patogeni attivano le cellule immunitarie attraverso un'interazione con i Toll-like receptors, di cui ad oggi si conoscono quattro principali classi: i toll-like receptors, i recettori di tipo L e di tipo C, i recettori gene-simili di acido retinoico ed i recettori del dominio oligomerizzante legati al nucleotide (si veda la figura). Questi recettori riconoscono strutture che sono conservate tra le specie microbiche, i cosiddetti schemi molecolari associati agli agenti patogeni, con conseguente up-regulation della trascrizione dei geni infiammatori ed attivazione dell'immunità innata. Gli stessi recettori ritengono anche le molecole endogene rilasciate dalle cellule ferite, i cosiddetti schemi molecolari associati ai danni, quali le proteine di gruppo B1, le proteine S100, ma anche RNA, DNA ed istoni extracellulari.
ANOMALIE DELLA COAGULAZIONE:
La sepsi severa è quasi invariabilmente associata ad alterazioni della coagulazione, che spesso sfociano nella coagulazione intravascolare disseminata (DIC). L’eccesso della deposizione di fibrina è guidato: a) dalla coagulazione attraverso l'azione del Tissure Factor, una glicoproteina transmembrana espressa da vari tipi di cellule; b) da meccanismi anticoagulanti compromessi, incluso il sistema proteico C e l'antitrombina; c) da una compromessa rimozione della fibrina a causa della depressione del sistema fibrinolitico (si veda la figura). I recettori attivati dalle proteasi (i cosiddetti PAR) costituiscono il legame molecolare tra la coagulazione e l’infiammazione. Tra i quattro sottotipi identificati, il recettore PAR1 in particolare è implicato nella sepsi, svolgendo diversi effetti citoprotettivi quando viene stimolato dalla proteina C attivata o dalla trombina a bassa dose, ma esercitando effetti distruttivi sulla funzione di barriera endoteliale quando viene attivato dalla trombina ad alte dosi.
MECCANISMI ANTINFIAMMATORI ED IMMUNOSOPPRESSIONE:
Il sistema immunitario ospita meccanismi umorali, cellulari e neurali che attenuano gli effetti potenzialmente dannosi della risposta proinfiammatoria; I fagociti possono passare ad un fenotipo antiinfiammatorio che promuove la riparazione cellulare, e le cellule T regolatorie e le cellule soppressori derivanti dal midollo riducono ulteriormente l'infiammazione. Inoltre, i meccanismi neurali possono inibire l'infiammazione. Nel cosiddetto riflesso neuroinfiammatorio, l'ingresso sensoriale viene trasmesso attraverso il nervo vago afferente allo tronco cerebrale, da cui il nervo vago efferente attiva il nervo splenico nel plesso celiaco, con conseguente rilascio di norepinefrina nella milza e secrezione di acetilcolina da parte di un sottoinsieme di cellule CD4. La liberazione di acetilcolina mira ai recettori colinergici α7 presente sui macrofagi, sopprimendo il rilascio di citochine proinfiammatorie.
I pazienti che sopravvivono alla sepsi precoce ma rimangono dipendenti dalla terapia intensiva hanno inoltre delle evidenze di stati immunosoppressivi. Questi pazienti presentano spesso foci infettivi in corso nonostante la terapia antimicrobica, o mostrano delle riattivazioni di infezioni virali latenti. Molti studi hanno documentato una ridotta reattività dei leucociti ematici ai patogeni nei pazienti con sepsi, risultati recentemente corroborati da studi postmortem che rivelano forti disfunzioni funzionali di splenociti ottenuti da pazienti morti di sepsi in ICU. Oltre alla milza, anche i polmoni mostravano prove di immunosoppressione ed entrambi gli organi mostravano un’aumentata espressione di ligandi per i recettori inibitori delle T-cells sulle cellule parenchimali.
DISFUNZIONE D’ORGANO:
Anche se i meccanismi che sono alla base della disfunzione d’organo in caso di sepsi/shock settico sono stati solo parzialmente chiariti, la compromessa ossigenazione tissutale svolge un ruolo chiave. Diversi fattori - tra cui l'ipotensione arteriosa, la ridotta deformabilità degli eritrociti e la trombosi microvascolare - contribuiscono a ridurre la distribuzione dell'ossigeno tissutale in caso di shock settico. L'infiammazione può causare disfunzione dell'endotelio vascolare, accompagnata da morte cellulare e perdita di integrità della barriera, dando luogo ad un edema sottocutaneo e nelle cavità corporee. Infine, i danni mitocondriali causati dallo stress ossidativo ed altri meccanismi compromettono l'uso di ossigeno cellulare.
FISIOPATOLOGIA DELLO SHOCK SETTICO:
Un primo elemento importante é la vasodilatazione che coinvolge le piccole arteriole e riflette la presenza di mediatori che sono in grado di scompensare il controllo del tono vascolare (soprattutto l’ossido nitrico); la caduta delle resistenze periferiche porta ad un aumento del letto vascolare (con una conseguente ipovolemia relativa) ed una ridotta presenza di ossigeno tissutale. A questo si associa una disfunzione endoteliale, dato che l’eccessiva presenza di citochine e probabilmente di altro materiale esotossico (come il lipopolisaccaride batterico) portano ad una perdita della permeabilità endoteliale, con fuoriuscita di proteine dall’interstizio. L’edema comporta un peggioramento dell’ipovolemia e un aggravamento dell’ipossia tissutale, aumentando la distanza dal capillare alla cellula. Il processo patologico evolve inoltre con fenomeni di occlusione capillare, perché l’attivazione del sistema immunitario porta ad un’attivazione abnorme e patologica (anche a livello microscopico) del sistema di coagulazione, che porta ad una distorsione del microcircolo con conseguenti alterazioni nella perfusione periferica. A questo si associa inoltre l’apertura di shunt vascolari che portano ad un peggioramento della ipossia tissutale. L’ipossia tissutale si sviluppa in tutti i tessuti, compresi quello muscolare miocardico, comportando inoltre una disfunzione miocardica: l’enorme concentrazione citochinica (e soprattutto l’importante accumulo idrico) ha un impatto a livello della contrattilità cardiaca che viene ridotta (anche in un cuore sano); la tachicardia che si viene a sviluppare in questi pazienti non riflette solamente l’ipovolemia che si instaura, ma rappresenta anche segno di una miopatia indotta dalle citochine.
PRIORITÀ TERAPEUTICHE:
Ci sono essenzialmente quattro fasi nel trattamento dello shock e gli obiettivi di monitoraggio e terapeutici devono essere adattati ad ogni fase. Nella prima fase (fase florida), l'obiettivo della terapia è quello di raggiungere una pressione arteriosa minima ed una gittata cardiaca compatibili con la sopravvivenza immediata. In questa é fase é sufficiente un mini-monitoraggio, che nella maggior parte dei casi, si limita ad un catetere arterioso ed una VVC. In questa fase possono essere necessarie procedure di salvataggio come ad esempio un intervento chirurgico per il trauma (damage-control), la posa di un drenaggio pericardico, un intervento di rivascolarizzazione per infarto miocardico acuto e la somministrazione di antibiotici per la sepsi. Nella seconda fase (fase di ottimizzazione) l'obiettivo è quello di aumentare la disponibilità di ossigeno cellulare, con una stretta finestra per interventi mirati a migliorare la stabilità emodinamico. Un’adeduata rianimazione emodinamica si é dimostrata in grado di ridurre l’infiammazione, la disfunzione mitocondriale e l'attivazione delle caspasi, con una riduzione della mortalità. In questa fase la misurazione di SvO2 e dei livelli di lattato possono aiutare nel guidare la terapia, ed anche il monitoraggio della gittata cardiaca dovrebbe essere considerato. Nella terza fase (fase di stabilizzazione) l'obiettivo è quello di prevenire le disfunzioni d’organo anche dopo che la stabilità emodinamica è stata raggiunta: quando la fornitura di ossigeno ai tessuti non è più il problema chiave, il supporto degli organi diventa il problema più rilevante. Infine, nella quarta fase (fase di descalazione), l'obiettivo è quello di svezzare il paziente dagli agenti vasoattivi, promuovendo la fase poliurica per facilitare l'eliminazione dei fluido attraverso l'uso di diuretici o l’ultrafiltrazione per raggiungere un bilancio idrico negativo.
Lo scopo della diagnosi precoce è quello di iniziare la terapia per la sepsi che prevede a) di ristabilire l’instabilità emodinamica, b) di determinare la causa e correggerla, c) di impostare una terapia di supporto per prevenire ulteriori danni. Il paziente settico che viene resuscitato è tachicardico, edematoso, con una circolazione iperdinamica, una periferia calda e con una SvO2 elevata (per una ridotta estrazione tissutale).
APPROCCIO INIZIALE
All'inizio, un adeguato supporto emodinamico dei pazienti in stato di shock è fondamentale per prevenire il peggioramento della disfunzione d'organo e dello scompenso cardiaco; la rianimazione deve essere iniziata immediatamente, anche se non si sono completate le indagini diagnostiche. Una volta identificata, poi, la causa deve essere corretta rapidamente (ad esempio: controllo del sanguinamento, intervento coronarico per via percutanea, trombolisi o embolectomia per l'embolia polmonare massiva, somministrazione di antibiotici in caso di shock settico, ecc…). A meno che la condizione sia facilmente reversibile, un catetere arterioso dovrebbe essere inserito per il monitoraggio della pressione arteriosa ed il campionamento del sangue per gassometri ripetute, associato ad un un catetere venoso centrale per l’infusione di fluidi e la somministrazione di agenti vasoattivi. La gestione iniziale dello shock deve essere problem-oriented e gli obiettivi devono essere ben stabiliti, indipendentemente dalla causa primaria, anche se i trattamenti che vengono utilizzati per raggiungere tali obiettivi possono essere differenti da paziente a paziente.
SUPPORTO VENTILATORIO:
La somministrazione di ossigeno deve essere iniziata immediatamente con lo scopo di aumentare l'apporto di ossigeno e prevenire l'ipertensione polmonare; la pulsiossimetria è generalmente inaffidabile, per la presenza di una vasocostrizione periferica importante (confermata anche da indici di perfusione pulsometrici inferiori a 1), pertanto la precisa determinazione dell'ossigeno richiede spesso il monitoraggio emogasometrico. La ventilazione meccanica non invasiva piuttosto che l'intubazione endotracheale ha un posto estremamente limitato nel trattamento dello shock settico, perché un minimo guasto tecnico può rapidamente causare arresto respiratorio e quindi evolvere verso un arresto cardiaco. Pertanto l’intubazione endotracheale deve essere eseguita rapidamente, sia per ottenere un rapido e sicuro controllo delle vie aeree che per permettere un’adeguata sedazione del paziente (con conseguente riduzione del consumo d’ossigeno a livello cerebrale e muscolare) e ridurre il postcarico ventricolare sinistro. Una repentina riduzione della pressione arteriosa dopo l'inizio della ventilazione meccanica invasiva suggerisce fortemente un’ipovolemia per una diminuzione del ritorno venoso, ma eventualmente anche una disfunzione ventricolare destra (si veda il Capitolo dedicato al ventricolo destro, Capitolo 2.9). Allo stesso tempo, l’uso di agenti sedativi deve essere ridotto al minimo per evitare ulteriori riduzioni della pressione arteriosa e della gittata cardiaca.
IDRATAZIONE:
Una parte essenziale della presa a carico é la gestione dei fluidi per migliorare il flusso ematico microvascolare ed aumentare la gittata cardiaca; questo per qualsiasi forma di shock, ma ancora di più in caso di shock settico. Anche i pazienti con shock cardiogeno possono beneficiare di fluidi, poiché edema acuto può comportare una riduzione del volume intravascolare efficace; tuttavia, la somministrazione fluidi deve essere attentamente monitorata, in quanto un eccesso di liquidi comporta un rischio di edema con le sue conseguenze indesiderate, e soprattutto l’aumento della permeabilità capillare aumenta il rischio di edema interstiziale, soprattutto a livello cardiaco, con rischio di sviluppare una disfunzione cardiaca secondaria (che prende il nome di cardiopatia settica). Degli endpoint pragmatici per gestire la rianimazione con fluidi sono difficili da definire; in generale, l'obiettivo è raggiungere con la gittata cardiaca una precarico-indipendenza (cioè arrivare sulla porzione piatta della relazione Frank-Starling), ma questo non é sempre facile da valutare clinicamente. Nei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica, dei segnali di risposta ai fluidi possono essere identificati direttamente tramite delle misure invasive dirette o indirettamente da variazioni riscontrate nel polso arterioso durante il ciclo ventilatorio (ne abbiamo già ampiamente parlato nei capitoli dedicati all’emodinamica, sia nel Capitolo 2.1 che nel Capitolo 2.7). Tuttavia, tali deduzioni presentano alcune limitazioni, in particolare se il paziente presenta delle aritmie cardiache, con conseguente riempimento ventricolare variabile da battito a battito.
Quando i parametri predittivi di risposta alla somministrazione di liquidi non sono univoci o quando non é possibile eseguirli, si deve passare all’esecuzione di un test di somministrazione di liquidi per determinare la risposta reale di un paziente alla somministrazione di fluidi, pur cercando di limitare i rischi di effetti secondari. Tale test comprende quattro elementi che dovrebbero essere definiti in anticipo. In primo luogo, è necessario selezionare la tipologia di fluido: le soluzioni di cristalloidi sono di prima scelta, perché sono ben tollerate e poco costose; l’uso di albumina per correggere una grave ipoalbuminemia può essere ragionevole in qualche paziente, ma deve essere somministrata nella “fase florida” dello shock settico, subito al principio. In secondo luogo deve essere definita la quantità del fluido amministrato: generalmente devono essere infusi rapidamente per indurre una risposta rapida, ma non così in fretta da sviluppare una risposta allo stress indotto; tipicamente, un infuso di 300 a 500 ml di liquido viene somministrato in un periodo di 20 a 30 min per poter essere tollerabile ed oggettivatile. Terzo, si devono definire degli obiettivi per il test: nel caso di uno shock, l'obiettivo è di solito un aumento della pressione arteriosa sistemica, anche se altri obiettivi che spesso si vogliono raggiungere sono una riduzione della frequenza cardiaca, un aumento della produzione di urina o la riduzione dei lattati. Il Base Excess ed il lattati sierici sono i migliori parametri predittivi dell'outcome, molto meglio rispetto alla pressione arteriosa ed all'output urinario (anche rispetto alla PAOP del catetere polmonare); l'incapacità di normalizzare questi valori di laboratorio a 48 ore è una condizione associata ad una prognosi scarsa. Esiste una chiara correlazione fra il magnitudo della resuscitazione con cristalloidi ed il rischio di sindrome compartimentale addominale. L'acidosi lattica di tipo A si riferisce ad uno stato di ipoperfusione con un metabolismo anaerobio eccessivo e produzione di lattati; l'acidosi lattica di tipo B si riferisce a condizioni dove l'organismo è incapace di metabolizzare il carico di lattati; in entrambe le situazioni la presenza di una acidosi lattica superiore a 2 mmol/l dopo 24 ore è un parametro prognosticamente sfavorevole. Infine, devono essere definiti i limiti di sicurezza: l’edema polmonare è la più grave complicazione della infusione di fluidi; sebbene presenti limiti importanti, l’evoluzione della PVC dopo somministrazione di liquidi può essere un buon valore per identificare tale limite (da notare che non é il valore assoluto, quanto piuttosto la risposta alla somministrazione di liquidi).
AGENTI VASOATTIVI:
Se l'ipotensione arteriosa è grave o se persiste in maniera refrattaria alla somministrazione del fluido, appare indicato l'uso di vasopressori. È comunque accettabile somministrare dei vasopressori in maniera temporanea mentre la rianimazione con fluidi è in corso, con l'obiettivo di sospendere rapidamente tali vasopressori quando l'ipovolemia viene corretta. Gli agonisti adrenergici sono i farmaci di prima linea a causa della loro rapida insorgenza d'azione, la buona potenza e la breve emivita, che permette una facile regolazione della dose. Ogni singola stimolazione di ogni tipo di recettore adrenergico ha potenzialmente effetti positivi e negativi: ad esempio la stimolazione β-adrenergica può aumentare il flusso ematico, ma aumentare anche il rischio di ischemia miocardica come risultato di un aumento della frequenza cardiaca e del lavoro cardiaco. Quindi, l'uso di isoproterenolo, un puro agente β-adrenergico, è limitato al trattamento di pazienti con bradicardia grave. All'altro estremo, la stimolazione con α-adrenergici aumenta il tono vascolare e la pressione sanguigna, ma può anche diminuire la gittata cardiaca e compromettere il flusso ematico tissutale, specialmente nella regione epatosplancnica. Per questo motivo, l’uso di phenylephrina, un agente α-adrenergici quasi puro, è raramente indicato in questa situazione.
La noradrenalina é il vasocostrittore di prima scelta; é un farmaco che ha proprietà prevalentemente alfa-adrenergiche, ma i suoi modesti effetti beta-adrenergici aiutano a mantenere la gittata cardiaca. La sua somministrazione generalmente si traduce in un aumento clinicamente significativo della pressione arteriosa media, con pochi cambiamenti della frequenza cardiaca o della gittata cardiaca. L’adrenalina, un agente vasocostrittore più potente, ha effetti prevalentemente β-adrenergici a basse dosi, con effetti alfa-adrenergici più significativi a dosi più elevate. Tuttavia, la somministrazione d’epinefrina può essere associato ad un aumentato tasso di aritmia e ad una diminuzione del flusso splancnico, con aumento dei livelli di lattato nel sangue, probabilmente per un aumento del metabolismo cellulare. Alcuni studi prospettici randomizzati non hanno mostrato alcun effetto benefico dell’adrenalina oltre alla noradrenalina nel caso di shock settico. Per l’uso/indicazione di altri vasocostrittori, si veda il capitolo appositamente già discusso precedentemente (Capitolo 2.1.2).
Fra gli agenti inotropi, la dobutamina rappresenta il farmaco di scelta per aumentare la gittata cardiaca, indipendentemente dal fatto venga anche somministrata della noradrenalina. La dobutamina, con un’azione prevalentemente di tipo β-adrenergico, ha meno probabilità di indurre una tachicardia rispetto all’isoproterenolo. Una dose iniziale di pochi ug/Kg/min può aumentare sostanzialmente la gittata cardiaca, generalmente con dosi fra 2-20 ug/Kg/min. Dosi endovenose superiori a 20 ug/Kg/min di solito forniscono pochissimi ulteriori vantaggi. La dobutamina generalmente ha effetti limitati sulla pressione arteriosa, sebbene la pressione possa aumentare leggermente nei pazienti con disfunzione miocardica o potrebbe diminuire leggermente in pazienti con ipovolemia sottostante. La dose di farmaco deve essere regolata sulla base individuale per ottenere un'adeguata perfusione tissutale. Gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo III, come il milrinone e l’enoximone combinano le proprietà vasodilatatori ed inotrope; diminuendo il metabolismo dell’AMP ciclico, questi agenti possono rafforzare gli effetti della dobutamina, potendo anche essere utili quando i recettori beta-adrenergici vengono regolati a valle in pazienti recentemente trattati con beta-bloccanti. Tuttavia, gli inibitori della fosfodiesterasi di tipo III possono avere effetti secondari inaccettabili nei pazienti con ipotensione arteriosa, e le lunga emivita di questi agenti (dalle 4 alle 6 ore) impedisce di eseguire una regolazione minuto-per-minuto. Quindi, si preferisce la somministrazione in maniera intermittente ed a breve termine di piccole dosi di inibitori della fosfodiesterasi III piuttosto che ad una infusione continua in caso di shock. Il levosimendan, un agente più costoso, agisce principalmente legandosi alla troponina cardiaca C e aumentando la sensibilità al calcio di miociti, ma agisce anche come vasodilatatore aprendo ATP canali del potassio sensibili nel muscolo liscio vascolare. Tuttavia, questo agente ha una emivita di diversi giorni, che limita la praticità del suo uso in stati di shock acuto, soprattutto se persiste il rischio di ipovolemia (si veda il Capitolo 2.1 per maggiori dettagli su tale farmaco).
Riducendo il post-carico ventricolare, i vasodilatatori possono aumentare la gittata cardiaca senza incrementare la domanda miocardica di ossigeno; la maggiore limitazione di questi farmaci è il rischio di ipotensione arteriosa con compromissione della perfusione tissutale. Tuttavia, in alcuni pazienti, l'uso prudente dei nitrati e possibilmente altri vasodilatatori può migliorare la perfusione microvascolare e la funzione cellulare.
SUPPORTO MECCANICO
Il supporto meccanico con metodi invasivi, come il pallone di contropulsazione aortica (IABC) può ridurre il post carico ventricolare sinistro ed aumentare il flusso sanguigno coronarico (si veda il capitolo dedicato, Capitolo 12.4). Tuttavia, un recente studio randomizzato e controllato non ha mostrato alcun effetto benefico della contropulsazione nei pazienti con shock cardiogeno (inteso in senso generico) ed il suo uso di routine in caso di shock cardiogeno non è attualmente raccomandato.
SCOPI DEL SUPPORTO EMODINAMICO
A) PRESSIONE ARTERIOSA
L'obiettivo primario della rianimazione dovrebbe essere non solo ripristinare la pressione arteriosa, ma anche per fornire un adeguato metabolismo cellulare, per cui eventuali correzioni di ipotensione arteriosa non rappresentano altro che un prerequisito per gli altri steps. Il ripristino di una pressione arteriosa media tra 65-70 mmHg è un buon obiettivo iniziale, ma il livello dovrebbe essere regolata ad un valore sufficiente a ripristinare la perfusione tissutale (a tal proposito appare importante ricordarsi che la pressione non é la gittata) valutata sulla base dello stato mentale, l'aspetto della cute e la diuresi, come già descritto poc’anzi. In pazienti che presentano un’oliguria in particolare, bisognerebbe valutare eventuali effetti di un ulteriore aumento della pressione arteriosa sulla diuresi (ovviamente salvo il caso di insufficienza renale acuta). Al contrario, una pressione arteriosa media inferiore ai 65 mmHg potrebbe essere accettabile in un paziente con sanguinamento acuto che non ha grossi problemi neurologici, con l'obiettivo di limitare la perdita ematica ed i disordini della coagulazione, fino al controllo del sanguinamento.
B) GITTATA CARDIACA ED APPORTO DI OSSIGENO:
Dato che lo shock circolatorio rappresenta uno squilibrio tra l'offerta di ossigeno ed il fabbisogno di ossigeno, il mantenimento di un adeguato apporto di ossigeno ai tessuti è essenziale, ma tutte le strategie per raggiungere questo obiettivo presentano diverse limitazioni. Dopo la correzione dell’ipossiemia e di anemie severe, la gittata cardiaca è il determinante principale per apporto di ossigeno, anche se la gittata cardiaca ottimale appare difficile da definire. La gittata cardiaca può essere misurata mediante varie tecniche, ciascuna delle quali presenta i propri vantaggi e svantaggi; anche in questo caso pre-determinare una gittata cardiaca prestabilite non è consigliabile, in quanto la gittata cardiaca che è necessaria tra un paziente e l’altro é differente, ed anche nello stesso paziente il consumo di ossigeno può cambiare con le diverse fasi dello shock settico (vedi oltre).
Le misurazioni della saturazione venosa mista (SvO2) possono essere utili per valutare l'adeguatezza dell’equilibrio fra la domanda l'ossigeno e l’offerta; misure di SvO2 possono essere anche molto utili per l'interpretazione della gittata cardiaca; la SvO2 è tipicamente ridotta nei pazienti con stati a basso flusso o anemia (si veda il Capitolo 2.1 per la discussione sui determinanti della SvO2), mentre appare normale o elevata in caso di shock distributivo. Un parametro surrogato, la saturazione venosa centrale (ScvO2) misurata nella vena cava superiore mediante un catetere venoso centrale, riflette la saturazione di ossigeno del sangue venoso dalla metà superiore del solo corpo. In circostanze normali, ScvO2 appare leggermente inferiore alla SvO2, ma nei pazienti critici è spesso maggiore.
C) LATTATO SIERICO:
Un aumento del livello di lattato nel sangue riflette una disfunzione cellulare; negli stati a basso flusso, il principale meccanismo dell’iperlattatemia è l’ipossia tissutale con lo sviluppo di metabolismo anaerobica, mentre in caso di shock distributivo, la patofisiologia appare più complessa, coinvolgendo anche un aumento della glicolisi e l'inibizione della piruvato deidrogenasi, così come una ridotta clearance per la presenza di una disfunzione epatica. Il valore di misurazioni seriali di lattato nella gestione di shock è stato riconosciuto da oltre 30 anni; sebbene variazioni di lattato avvengano più lentamente rispetto alle variazioni della pressione arteriosa o della gittata cardiaca, il livello di lattato nel sangue dovrebbero diminuire nel corso di un periodo di poche ore dopo l’impostazione di una terapia efficace. Alcuni studi eseguiti su pazienti con shock settico, é stato dimostrato che il target di una diminuzione di almeno il 20% del livello di lattato nel sangue per un periodo di 2 ore sembrava essere associato ad una ridotta mortalità ospedaliera.
D) VARIABILI MICROCIROLATORIE:
Lo sviluppo di dispositivi palmari per la polarizzazione spettrale ortogonale (OPS) ed il suo successore, sidestream dark-field (SDF), stanno fornendo nuovi mezzi per visualizzare direttamente la microcircolazione e valutare gli effetti degli interventi sul flusso del microcircolo nelle superfici facilmente accessibili, come nella zona sublinguale; modifiche microcircolatorie, compreso la diminuzione della densità capillare, una proporzione ridotta di capillari perfusi ed una maggiore eterogeneità del flusso ematico, sono stati identificati in vari tipi di shock circolatorio e la persistenza di queste alterazioni è stata dimostrata essere associata ad un outcome peggiorativo.
La near-infrared spectroscopy è invece una tecnica che utilizza la luce nel vicino infrarosso per determinare ila saturazione d’ossigeno tissutale dalle frazioni di ossiemoglobina e deossiemoglobina. L’analisi dei cambiamenti nel tessuto saturazione di ossigeno durante un breve episodio di ischemia dell'avambraccio può essere utilizzato per quantificare la disfunzione microvascolare; tali le alterazioni sono associate ad un peggioramento dell’outcomes. Diversi interventi terapeutici hanno dimostrato di avere un effetto sul microcircolo, ma allo stesso tempo ad oggi non é ancora stato dimostrato e pertanto non può ancora essere consigliato che il monitoraggio della microcircolazione con adattamento della terapia sulla base del microcirolo possa portare a cambi di strategia nella gestione dello shock settico.
(continua…)
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